Lunedì 11 febbraio il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una proposta di legge che regolamenta a livello regionale la “morte volontaria medicalmente assistita”, detta anche “suicidio assistito” o “eutanasia indiretta”.
La Toscana è la prima regione italiana (nulla di che esaltarsi di questo primato) a dotarsi di tale normativa in assenza di una nazionale. Nel 2019 una sentenza della Corte Costituzionale aveva dichiarato la “non punibilità” di chi, a determinate condizioni, “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile” che causa intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche. Ora si attende, nei 30 giorni a venire, il ricorso presentato dalle opposizioni al Collegio di Garanzia Statutaria per la verifica di conformità.
Si sono levate non poche voci contro questa normativa ritenuta una “risposta non adeguata che la nostra società dovrebbe dare a chi chiede aiuto”, dice a chiare lettere dalla Casa Famiglia di San Giorgio Canavese Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII che accoglie in diversi Paesi del mondo “persone in condizioni di estrema fragilità che spesso, dietro al desiderio di morte, hanno una richiesta di aiuto. Sentirsi accolti, amati, riconoscersi importanti, consente di recuperare il valore della propria vita anche nelle situazioni più disperate”. Già!
Perché qui c’è in ballo la domanda delle domande: che cosa è l’Uomo? Quanto vale la sua vita? Tanto se produce, se è bella, se è forte? Poco o niente se è di peso, di disturbo, malata, handicappata? E c’è in ballo anche il giuramento di Ippocrate: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”.
Questa legge regionale contraddice alla radice la vocazione della medicina “perché – sostiene ancora Fadda – assecondare la disperazione della persona sofferente che la porta a porre termine alla propria vita, invece di mettere a disposizione tutte le risorse disponibili, comprese le cure palliative, per accompagnare chi si trova in estrema sofferenza, è una sconfitta per tutti”. Non un traguardo, quindi.
Chi dunque può sentirsi adeguato a interrompere o fermare una vita?