Perché dovrei fare la fatica di imparare, se ChatGPT può farlo (e può rispondere) al posto mio?”. È questa la domanda che si stanno facendo migliaia di studenti, ogni giorno, scrollando lo schermo tra una lezione e l’altra. E la cosa peggiore è che, in parte, hanno anche ragione. In un mondo dove l’intelligenza artificiale genera testi in un lampo, risolve problemi, scrive relazioni e perfino fa gli esercizi di greco, perché dovrei sbattermi a studiare? Perché non posso semplicemente “ottimizzare”?

Ecco, siamo entrati nell’era dei “nativi IA”: abbiamo un chatbot nella tasca dei jeans più accessibile di un dizionario, e sappiamo benissimo che con un prompt azzeccato si può far finta di sapere tutto. La tentazione è forte: meno fatica, più risultato. O almeno, così sembra.

Poi ci sono gli adulti. Quelli che ripetono “Eh, ma ai miei tempi si studiava davvero”, come se bastasse il ricordo delle tabelline per salvare il sistema educativo. Quelli che, se un ragazzo usa l’IA, lo trattano come se avesse copiato con la matita negli anni ’50.

Il problema, però, non è il chatbot. È l’assenza di una risposta vera alla domanda di fondo: perché imparare?

E allora serve un cambio di sguardo. Non si tratta di eliminare l’IA, né di usarla senza criterio. Si tratta di capire come farla diventare un alleato. L’autonomia di uno studente non si costruisce vietando gli strumenti, ma insegnando a usarli con intelligenza. La competenza non si misura dal tempo speso sui libri, ma dalla capacità di ragionare con la propria testa, anche se la prima stesura l’ha scritta ChatGPT. E le relazioni educative non le sostituirà mai una macchina, perché nessuna IA ti guarda negli occhi mentre, correggendoti laddove sbagli, ti dice: “Hai capito adesso?

Per la prima volta, un mio professore ha ammesso l’utilizzo dell’IA in sede d’esame, vincolandolo però all’obbligo di dichiarare i prompt utilizzati nello sviluppo. Una soluzione lungimirante. Ecco la differenza tra chi vuole fermare il tempo e chi cerca di educare davvero.

Quello che manca oggi è l’umiltà di educare, non il bisogno di imparare. E l’IA, se ben integrata, può persino aiutare a ritrovare il gusto di farcela da soli. Ma serve una rivoluzione culturale, non un ennesimo software.

Perché la vita vera non è fatta di scorciatoie o formule magiche, ma di percorsi. E se non impariamo a camminare con le nostre gambe, rischiamo di diventare i paladini errati per le nuove generazioni. Noi, Gen Z con un piede nei Millennials, con il gusto della scoperta e il fantasma di com’era prima, finiamo per essere i primi nella storia che sanno tutto e non hanno capito niente.

(Foto ricavata da Freepik)