Nel 1977 veniva promulgata la legge n. 54 del 5 marzo che aboliva o spostava alla domenica alcune festività religiose come il 2 giugno e il 4 novembre, ex Festa della Vittoria. Anche la vittoria è come un coniuge: può anche diventare un “ex” dopo anni di sopportazione. Otto anni dopo tornò l’Epifania e nel 2000 tornò festivo il 2 giugno festa della Repubblica.

Il 4 novembre di quest’anno, nel centenario della fine della Grande Guerra sul fronte italo-austriaco (l’11 per tutti gli altri Paesi belligeranti) è stato di domenica. La commemorazione dei defunti del 2 novembre, si è estesa con facilità ai morti della Grande Guerra: più di 650 mila uomini e ragazzi italiani. Un milione di morti nella sola vallata dell’Isonzo (dove c’è Caporetto) tra italiani, austriaci, ungheresi, bosniaci, sloveni, croati e 2 mila russi prigionieri, utilizzati per costruire strade militari nelle montagne delle retrovie austro-ungariche senza cibo.

Al convegno internazionale del 3 e 4 novembre al castello d’Harcourt di Azeglio, sulla “Conservazione della memoria lontano dai campi di battaglia”, Gianni Oliva ha ricordato il valore della coltivazione della memoria collettiva d’Europa, perché da quella catastrofe nacque anche l’opinione pubblica: nel bene e nel male, anche nei nazionalismi del dopoguerra (io penso anche quando si va a votare alle amministrative e che poi ti trovi senza Olimpiadi e senza Tav in un Piemonte bloccato; o a Roma invece con tanta immondizia nelle strade).

Zeliko Cimpric ha poi raccontato come, con altri amici, dopo la caduta del regime jugoslavo, era finalmente giunto il momento di costruire un museo divenuto prestissimo di fama mondiale, a Caporetto, oggi Kobarid (territorio perduto con la successiva guerra mussoliniana). Il regime comunista vietava agli sloveni ogni ricordo della Grande Guerra perché l’unica guerra da ricordare era quella patriottica dell’esercito di Liberazione Jugoslavo contro italiani e tedeschi.

Lo scrittore e alpinista Enrico Camanni in merito alla solenne commemorazione con il presidente della Repubblica a Trieste, ad Azeglio ha parlato di occasione perduta per la politica europea: poteva ripartire una nuova idea d’Europa proprio da quei campi di battaglia. La diretta di Rai 2 di domenica mattina ha regalato immagini bellissime dalla ex terza città dell’Impero Austro-Ungarico, ma il commento a volte copriva i migliori suoni e purtroppo non è stato in grado di capire il senso di quelle bandiere e quelle uniformi storiche balcaniche e centro europee a Trieste, in mezzo ai soldati italiani, non riuscendo a descriverle. Peccato. Un gran peccato.  Abolire le feste è come dimenticare che i sopravvissuti dovettero fare i conti con quanto era successo e trovare linguaggi adatti per esprimere il sentimento della perdita e della demoralizzazione. Dietro alla elaborazione di questo lutto, pubblico e privato, ci sarebbe il senso dell’Italia e dell’Europa.

Ma non preoccupiamoci della perdita di memoria: in ultimo il ministro dell’istruzione Marco Bussetti, invece di dare strumenti ai docenti per far rispettare l’esecuzione dei programmi ministeriali di storia in classe, che dovrebbero coprire la storia del ‘900, è giunto a una soluzione geniale: abolire la traccia di storia dall’esame di maturità! La storia spaventa gli italiani? La aboliamo.
Domenica scorsa al castello d’Harcourt, in cui Massimo d’Azeglio nel 1831 scriveva, novello sposo di Giulia (la figlia di Alessandro Manzoni) l’Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta per dare un’epica all’Italia non ancora unita – sembrava risuonare, tra scaloni e sale d’altri tempi una voce lontana: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani!”.

Fabrizio Dassano