Non passa giorno che non ci sia attesa per qualcosa. La vita è costellata di attesa – e di attese – vengano esse dal cielo, dagli altri, da noi stessi. Non mi pare esistano statistiche di quanto tempo passa una persona nell’attesa di qualcosa o di qualcuno durante gli anni della propria vita. C’è l’attesa gioiosa e c’è quella preoccupata; entrambe infinite. Quando si affaccia il Natale sembra che il livello di attesa si alzi, più pressante, più insistente. Col Natale – anche per chi non nutre particolare attaccamento a questa festa – qualcosa deve pur accadere; la speranza prende il volo perché dentro o fuori di noi qualcosa deve andare finalmente per il verso giusto, deve realizzarsi, deve funzionare meglio. Altrimenti che festa è!

Con questo spirito c’è chi ha pensato che Natale fosse già stato il 4 marzo scorso; l’attesa del cambiamento si era finalmente concretizzata con un nuovo governo del Paese. A nove mesi di distanza c’è chi ancora attende e c’è chi ha già smesso di farlo, o comunque ha ridimensionato le aspettative dalle promesse ricevute e imparato a proprie spese a fare meglio i conti con la realtà.
Ma l’attesa non si arresta mai. Oggi l’attesa pare preoccupata più del consueto, si fa avanti il timore che alla fine sia un’attesa vana per le promesse irrealizzabili, o vanificata dall’incapacità o impossibilità di chi deve darne seguito.

Si annuncia un Natale dalle tante attese e dalle troppe preoccupazioni. Soprattutto da quando è diventato più chiaro che l’arroganza e le parole grosse contro l’Unione europea sono costate svariati miliardi di euro provocate dai rialzi dello spread e che qualcuno prima o poi deve colmare il buco fatto (lo Stato o i cittadini, o entrambi?).

Nell’attesa c’è chi ha incominciato a capire che facciamo parte di un sistema globale di cui non è possibile fregarsene a piè pari, perché vede i Paesi e le relative economie legate e dipendenti – nel bene e nel male – tra loro. C’è attesa e preoccupazione sulla situazione politica, dove la politica non sembra essere in grado di condurre la nave. I mercati preoccupano perché abbiamo capito che c’è una loro influenza sul nostro vivere, acquistare, risparmiare, investire e che la recessione, paventata da qualcuno per l’inizio del 2019, non è uno spauracchio tanto per mandare gambe all’aria il governo attuale e sostituirlo con non si sa bene cos’altro.

Preoccupano l’arroganza verbale e gestuale, gli atteggiamenti dell’uomo forte e unico, la ricerca del nemico a tutti i costi e la sua esposizione sulla piazza dei social, l’affievolirsi della democrazia anche passando attraverso meno tutela e meno sostegno dello Stato al pluralismo dell’informazione e non solo. Preoccupa il lavoro che manca oggi e non ci sarà domani, la crescita che non cresce, la povertà che non diminuisce e soprattutto preoccupano le ricette che danno tanto l’impressione che la ciambella del cambiamento non uscirà con il buco come qualcuno tenta ancora di far credere. Insomma, l’attesa per il cambiamento che avrebbe dovuto essere, si sta tramutando in una preoccupazione – non lontana dalla paura – per un cambiamento oggi non ben identificato, che va due passi avanti e tre indietro, ondeggia come una nave nel mezzo della burrasca, dove l’inquilino del Colle più alto di Roma – il Quirinale -, è l’unica garanzia rimasta, pur sapendo che l’equipaggio che rema a Palazzo Chigi poco sa e poco fa per tenere la barra dritta della navigazione.

In tutto questo è quasi ora di accendere le luci degli alberi e degli addobbi per le strade nel centro delle nostre città. Basterà per esorcizzare un’attesa buia?