Don Giuseppe Bergesio, conosciuto più familiarmente come “don Josè”, è nato a Saluzzo 75 anni fa; con la famiglia si spostò in giovane età dalle parti di Chivasso e divenne quindi prete diocesano di Ivrea; oggi è missionario in Mozambico. In realtà la sua missione “fidei donum” cominciò con 25 anni da missionario in Brasile; poi, dopo 9 anni come parroco a San Giorgio Canavese, ci furono 8 anni di nuovo come missionario in Guinea Bissau. Da 5 anni è in Mozambico, in quella parrocchia di Inhambane fatta da 25 villaggi sparpagliati su un territorio immenso, che assomiglia più a una diocesi che ad una parrocchia, almeno per come noi siamo abituati ad intenderla.

Don Josè è in Italia per poco meno di un mese: ripartirà per l’Africa il 27 gennaio dopo un po’ di riposo, qualche visita medica di rito, i saluti alla famiglia di fratelli, sorelle e nipoti e, ovviamente, l’incontro con chi frequenta il Centro Missionario Diocesano che organizza per venerdì 18 gennaio – alle 20.30 nella sede di via Varmondo 9 – un momento per parlare di “turismo solidale”. In altre parole, le sue, “proveremo a spiegare che si può venirmi a trovare in Mozambico per fare esperienza di missione, toccare con mano i problemi, capire le soluzioni che abbiamo adottato per portare il Vangelo e lo sviluppo sociale”.

Abbiamo incontrato don Bergesio qui da noi in redazione, per una cordiale chiacchierata e qualche domanda.

Don Josè qual è la sua priorità nella missione di oggi, a Inhambane?

È senz’altro quella di cercare di rendere la missione, cioè la parrocchia dove lavoriamo, autonoma e indipendente da noi, affinché abbia tutte le forze locali per poter continuare senza la nostra presenza in futuro.

Come ha impostato la sua azione pastorale?

Cercando di utilizzare al massimo le forze laicali. Sono i laici che fanno la parte principale, noi quasi siamo un supporto di quello che è la base, che appunto sono i laici.

Ma c’è bisogno di missionari in Mozambico? O forse ce n’è più bisogno in Italia, in Europa, nel mondo occidentale?

Io penso che i tempi vadano in direzione opposta rispetto al passato. Da qui in avanti ce ne sarà bisogno in Italia, e difatti – grazie a Dio – nelle terre tradizionalmente dette ‘di missione’ stanno aumentando le vocazioni e chissà che un domani siano proprio loro i missionari che terranno su la Chiesa, e coltiveranno la fede anche qui. Da qualche mese ho finalmente un viceparroco, e non è affatto poco.

La sua giornata di missionario come si svolge?

È molto complessa perché abbiamo molte attività. Siamo molto sollecitati sul piano della carità, dell’aiuto, dell’ascolto, per problemi da risolvere, per l’evangelizzazione. I problemi sono sempre tanti, le persone che arrivano anche per chiedere una cosa o l’altra sono molte, e allora bisogna gestire un po’ tutte queste necessità locali in una forma anche non programmata… ci è chiesta molta disponibilità.

Concretamente, l’annuncio del vangelo come si fa?

Noi visitiamo le varie comunità, i villaggi della parrocchia dove già lavorano i laici: sono dieci tipi di servizi che in ogni comunità sono svolti dai laici locali. Quando arriviamo nei villaggi noi sacerdoti rafforziamo la loro azione, il loro lavoro con la nostra presenza, le celebrazioni, la catechesi, l’ascolto.

Non si può infatti essere dappertutto in 25 villaggi separati da grandi distanze e collegati da strade poco comode…

Esattamente, quindi andiamo ogni tanto, talvolta secondo le necessità, talvolta secondo una programmazione condivisa. Riusciamo a visitare queste comunità in media ogni due o tre mesi.

Le pare un modello potenzialmente esportabile anche nelle nostre realtà, dove non ci sono più sacerdoti a sufficienza e dove un solo prete ha più parrocchie?

Mi meraviglia un po’ che questo modello – questo valorizzare e utilizzare i laici che ci sono – non sia ancora arrivato fin qui. I preti sono sempre meno, ma laici formati ce ne sono ancora e sono di buona volontà. Quindi il modello di laggiù, secondo me, forse in futuro si imporrà per forza, ma sarebbe meglio che cominciassimo magari a importarlo adesso, non per forza ma per amore della nostra pastorale attuale.

Diffusione del vangelo, attenzione ai poveri: quali sono gli altri punti cardine della vostra presenza?

Le necessità sociali ci occupano molto. Scuole, asili, collegi e non solo. Abbiamo un collegio per ragazzine che hanno finito la scuola elementare nel loro villaggio, e là non c’è più modo di proseguire gli studi. Se non continuano a studiare i genitori cercano loro un marito e le fanno sposare e lì è finita tutta la storia della ragazza: a 13-14 anni il suo destino è fare la schiavetta dell’uomo a cui il padre l’ha affidata e fare figli, lavorare da matti. Con il collegio di Maimelane, dove c’è la scuola secondaria, possono continuare a studiare, imparando anche tante altre cose che serviranno per vivere e lavorare e contribuire allo sviluppo e alla crescita del loro Paese.

Si tratta di un’azione compresa dalle autorità locali e dalla popolazione? Il vostro intervento è accettato e supportato?

Direi di sì, normalmente vedo dei buoni commenti, delle buone reazioni, e un sostegno anche in questo senso dalle autorità locali.

A quando il suo ritorno definitivo in patria?

Appena possibile, ma non so quando, perché non si può ritornare senza lasciare le cose a posto, che vadano avanti anche senza di noi. E’ in questo senso che stiamo lavorando. Adesso già con un vice parroco locale si comincia ad aprire la strada perché un giorno siano loro ad andare avanti, non ci sia più bisogno di noi che siamo ormai una razza in via di estinzione. Un mio desiderio sarebbe che molti laici, preti, religiosi di qui, della nostra diocesi, possano visitarci anche per vedere questa realtà nuova.

Carlo Maria Zorzi