(Susanna Porrino)

La celebrazione del 25 aprile ha portato con sé una serie di proteste basate sul paragone tra la liberazione dell’Italia e la condizione di libertà limitata in cui da un anno a questa parte ci troviamo; proteste che, fondamentalmente, dimostrano quanto facilmente pieghiamo alle nostre esigenze una storia di difficoltà e sofferenze che non riusciamo a comprendere fino in fondo, anziché renderla spunto di osservazione del presente.

La liberazione dell’Italia ha previsto una componente di resistenza attiva e di senso della collettività che la società odierna in gran parte fatica a concepire. I giovani partigiani che hanno combattuto contro il regime nazifascista prima dello sbarco degli Alleati sono stati in grado di compiere una scelta così netta e definita da essere disposti a sacrificare la vita per essa e per coloro che ne avrebbero potuto trarre vantaggio.

La liberazione dell‘Italia dalla dominazione tedesca non significava per gli italiani la possibilità di tornare a condurre una vita di svaghi e serenità libera dalle conseguenze della guerra, ma la possibilità di tornare a vivere senza paura e di cominciare a ricostruire un Paese profondamente ferito e segnato da lutti e sofferenze.

Non si vuole negare la legittimità del bisogno di riprendere la quotidianità di un tempo, ma penso che un episodio così vitale della nostra storia possa fare riflettere per motivi diversi da quelli di cui si è discusso in questi giorni.

Colpisce profondamente pensare alla differenza (senza voler necessariamente apporre al termine un’etichetta negativa o positiva) tra la radicalità con cui meno di un secolo fa venivano portate avanti le lotte e le battaglie per idee e valori e la generale debolezza con cui oggi sono avanzate le proteste per cause di tipo collettivo. Non si intende negare il valore delle nuove generazioni, ma chiedersi cosa sia cambiato in un arco così breve di tempo.

Zygmunt Bauman, uno dei maggiori sociologi del secolo scorso, scomparso pochi anni fa dopo averci lasciato in eredità una delle più lucide e imponenti riflessioni sulla società del nostro tempo, aveva analizzato nei suoi studi anche il modo in cui la libertà di scelta dell’essere umano venisse distorta nella società “liquida” che egli descrive guardandosi intorno.

La società liquida è abitata da generazioni educate all’insoddisfazione perenne, costantemente esposte all’immagine di ciò che avrebbero potuto vivere se avessero preso strade diverse, se fossero nate in corpi diversi, se avessero saputo scegliere una versione di sé opposta rispetto a quella che si sono create: il bombardamento continuo della rappresentazione di corpi più magri, realtà da sogno, vite più piene ed emozionanti, che continuamente frustrano e privano di dignità le possibilità di soddisfazione dell’individuo. Il risultato più problematico di queste dinamiche non è stato l’aver relegato la sofferenza ad un taboo, quanto l’aver reso vuoto e dunque occasione di sofferenza tutto ciò che appare troppo vicino alla quotidianità e non si addice alla stravagante patina dorata ed eccezionale di cui le vite altrui sembrano ovunque, in modo particolare sui social, rivestite.

Che cosa inseguiamo, quindi, quando reclamiamo le libertà passate? Davvero a mancarci è solo la libertà, o siamo spinti anche dalla paura che non possa esserci felicità o soddisfazione in una vita meno sfavillante e meno affollata di scelte rispetto a quella che inseguivamo prima che un virus ci costringesse a fermarci? Da quali ingombranti ostacoli sentiamo il bisogno di essere liberati, oltre che dalla presenza di un virus contro cui non possiamo far altro che affidarci alla scienza?