(Editoriale)

Scrivere di profughi, in questo momento, vuol dire soprattutto scrivere di accoglienza, vuol dire mettere l’accento sulla generosità canavesana e piemontese delle oltre 4 mila famiglie pronte ad aprire le porte di casa per accogliere le mamme ucraine con i loro figli. Solo una piccola parte accoglierebbe mettendo a disposizione un alloggio sfitto.

Ondeggiante è il numero dei profughi ucraini nella nostra regione: tra i 3 e i 5 mila, di cui mille già “assorbiti” in provincia di Novara da una importante comunità ucraina residente. Nelle prime pagine interne del nostro giornale centriamo il tema dell’accoglienza, che vorremmo fosse consapevole. Se i gruppi di profughi, arrivati in maniera organizzata, hanno trovato sistemazione nei centri di accoglienza che furono dei migranti africani, nei Covid-hotel o in strutture attrezzate per l’occasione, presto ci sarà il “travaso” verso le famiglie piemontesi. Che vanno preparate prima e accompagnate poi, come ci fanno notare i volontari già impegnati in questa operazione.

Sorgono domande legittime e non provocatorie: sappiamo cosa vuol dire accogliere sul lungo termine? La Caritas nazionale identifica la prima fase di accoglienza in almeno un anno. Quanto siamo preparati e attrezzati per ospitare chi non ha scelto di fare una vacanza di qualche settimana, che non si sarebbe mosso da casa propria e che là ha lasciato affetti e ciò che possedeva? Come la mettiamo davanti ai traumi creati da stress, guerra, privazioni, paura, notizie brutte in arrivo dal fronte?

Davanti a tutto ciò forse non è neppure la lingua diversa ad essere il problema maggiore. Crediamo, però, che tutto sarà risolvibile grazie alla formazione, alla preparazione e all’accompagnamento sulle problematiche alle quali il nuovo nucleo familiare allargato va incontro.

C’è chi indica nelle associazioni lo strumento migliore per l’accoglienza, perché hanno mezzi e conoscenze. La preoccupazione che matura nei Comuni, ai quali sembrerebbe che tutta la gestione dei profughi verrà affidata, la dice lunga sulla complessità dell’accoglienza, che non deve fallire.

Aprire casa non deve portare a nessun insuccesso, che sarebbe dannoso per chi accoglie e chi è accolto. Basta sapere, e non è poca cosa, che la solidarietà, a tutti i livelli, non si improvvisa e funziona se è preparata e accompagnata: perché l’emozione del momento non sarà mai sufficiente a dare risposte di cui ha bisogno chi fugge da una guerra. E non serve neppure a chi accoglie.