(Cristina Terribili)
Riprendere oggi il tema dell’affido familiare comporta, a mio avviso, partire dalle origini, seguirne la storia, fare il punto sull’attualità.
Se la figura della “Balia” viene regolamentata nel 1918 con una legge in cui vengono definiti i criteri che mettono in rilievo la buona salute fisica della donna che si offre di allattare un bambino, ricordiamo anche che a quei tempi si affidavano i bambini a chi aveva una “bottega” per insegnare un mestiere. In entrambi i casi non si teneva necessariamente conto degli aspetti psicologici dei bambini o di chi li ospitava: l’attenzione delle istituzioni e del comune sentire era orientata solo a soddisfare dei criteri pratici.
È a partire dagli anni ’70 che cominciano delle sperimentazioni di affido di minori presso Enti Assistenziali con un’iniziale raccolta e analisi di alcuni dati. Da queste esperienze si cerca di sistematizzare e di definire i contorni di tante e diverse condizioni in cui versavano bambini, ragazzi e anche le famiglie e i tempi e i modi dell’affido. Con la legge del 1983, che all’epoca risultava essere all’avanguardia nel mondo, si è avuta la possibilità di permettere, in circa vent’anni, a 90mila bambini di poter essere sostenuti da famiglie affidatarie piuttosto che ricoverati in istituti.
L’importanza di questa legge stava nel fatto che il bambino cominciava ad essere investito di diritti propri che la comunità deve tutelare. Ulteriori modifiche sono state poi apportate dalla legge 149/2001 che sancisce il diritto del bambino ad essere educato dalla propria famiglia ma contempla il poter ricorrere ad una famiglia vicaria in caso di mancanza o incapacità di quella naturale e, successivamente dalla legge del 15 ottobre 2015 che sanciva il diritto alla continuità affettiva (anche se gli addetti ai lavori avevano sempre fatto i conti con gli aspetti più umani e psicologici relativi alla separazione del bambino sia dal contesto familiare di origine che dalla famiglia affidataria).
Mi pare importante ricordare che, prima di questa legge, un bambino che veniva dato in affido nel caso non avesse più le condizioni per rientrare nella famiglia d’origine, veniva dato in adozione: la famiglia affidataria però non poteva fare richiesta di adozione e, sovente, si assisteva ad un ulteriore separazione per il minore, che veniva adottato da un’altra famiglia, fino a quel momento sconosciuta.
L’istituto dell’affido intra o etero familiare, che oggi deve essere rivisto e corretto da storture varie, ha permesso a molti bambini di essere sostenuti e cresciuti in famiglie che si sono prese cura di loro, che hanno garantito un contesto familiare sano, di tutela ma soprattutto di affetto. Oggi ci sono dei protocolli, degli studi e dei riferimenti teorici molto precisi e puntuali che possono aiutare chi deve valutare una condizione di disagio. Se la valutazione delle capacità familiare, se la valutazione della condizione del bambino o della famiglia affidataria, venissero fatte secondo criteri e protocolli riconosciuti e condivisi, si potrebbero ridurre gli errori di valutazione.
Se riprovassimo ad affrontare il tema dell’affido su un modello sistemico, tutti i personaggi coinvolti nella dinamica dell’affido avrebbero ruoli, competenze, responsabilità e obiettivi specifici. La famiglia d’origine verrebbe ad essere di nuovo sostenuta, così come il bambino, così come la famiglia affidataria, così come tutte le istituzioni ed i professionisti che partecipano nel mettere in pratica misure a sostegno della fragilità familiare.