Ricorre quest’anno il centenario della morte del cardinale Agostino Richelmy, che dopo essere stato vescovo di Ivrea (dal 1886 al 1897), resse l’arcidiocesi di Torino fino alla morte, avvenuta il 10 agosto 1923.

Pier Franco Quaglieni lo ha definito “un pastore moderato”, che “contribuì agli albori del novecento a far conoscere i principi sociali dell’enciclica Rerum Novarum del Papa che, dopo la morte di Pio IX, aveva compreso la necessità che la Chiesa si aprisse ai tempi nuovi, rivolgendosi al mondo contadino e operaio” (La Stampa).

Giuseppe Tuninetti, storico della chiesa torinese, sottolinea la prudente moderazione del vescovo Richelmy: “Deciso oppositore dei modernisti, disapprovò gli eccessi degli integristi”.

Negli anni in cui Torino conobbe la rivoluzione industriale, accompagnata da un’espansione demografica e urbanistica, l’arcivescovo favorì la linea moderata del movimento cattolico.

Di fronte al conflitto mondiale, “il suo atteggiamento, come quello cattolico in genere, fu di condanna morale e di neutralità politica, ma di disponibilità ad appoggiare il governo”; sopraggiunta la guerra, “mobilitò i cattolici in opere di assistenza ai profughi e ai soldati” (La voce e il tempo, 17 settembre 2023).

Marta Margotti così delinea i capisaldi della sua linea pastorale: “unità dottrinale intorno al pontefice, organizzazione compatta del mondo cattolico contro il socialismo, vigilanza nei confronti di ogni deviazione in capo teologico e politico” (Storia della Chiesa di Ivrea in epoca contemporanea, p. 36).

Del vescovo e cardinale Richelmy resta fondamentale la biografia scritta da Attilio Vaudagnotti (Torino 1926).

Le sue radici familiari erano torinesi da parte del padre, eporediesi da parte della madre.

Di origine nizzarda, nel secolo XVII i Richelmi di Pigna sono giunti a Torino, dove si distinguono come avvocati e banchieri.

Padre del futuro vescovo, è Prospero Richelmy, figlio di Agostino e di Olimpia Cottolengo.

Laureato nell’Ateneo torinese come ingegnere idraulico, percorre una brillante carriera accademica come professore di Meccanica applicata e Idraulica.

Insieme a Quintino Sella e Federico Menabrea fonda la Scuola di applicazione degli ingegneri al castello del Valentino – a partire dal 1906 si chiama Politecnico – e ne è il primo direttore.

La scuola è per lui una seconda famiglia.

Un suo antico allievo ricorda che gli studenti lo chiamavano papà Richelmy.

Uomo di studio e di scienza (gli Annali della R. Accademia delle Scienze di Torino elencano 38 pubblicazioni), integro e da tutti stimato, è anche uomo di fede, in privato come in pubblico.

Come il fratello Carlo, è amico di Don Bosco, spesso ospite in casa Richelmy, e aiuta diverse opere benefiche in una Torino che va rapidamente crescendo.

Una questione di successione ereditaria fa incontrare Prospero con la famiglia Realis, che – scrive Salvator Gotta nel suo Almanacco (Mondadori 1958) – era tra le più antiche e cospicue di Ivrea.

Qui i Realis possiedono una graziosa villa di fronte alla chiesetta di Sant’Antonio, lungo l’antica via Francigena.

L’avvocato che assiste il giovane Richelmy è Pietro Felice Realis, che ha sposato Carolina Claretta, dei signori di Fiorano.

La loro terzogenita è Lidia.

Dall’idillio al fidanzamento al matrimonio, celebrato nella chiesa della Madonna degli Angeli il 15 aprile 1844.

Lidia è stata educata nel collegio di Chambéry, allora di moda tra le famiglie piemontesi.

Non ne conserverà un gran bel ricordo, se non per avervi imparato a suonare l’arpa.

Nella nuova casa subisce l’autorità piuttosto oppressiva della suocera Olimpia, alla quale un discendente dedicherà questo affettuoso ritratto: “Il sorriso non si addiceva a Olimpia. Forse perché, prima che verso gli altri, professava una severa intransigenza verso se stessa” (Carlo Richelmy, Olimpia.

Un matriarcato dell’Ottocento, Torino 1968, p. 17).

Ma Lidia non si smarrisce.

Madre amorosa, attende alla cura e all’educazione dei figli, ai quali permette di darle del tu, scandalizzando l’austera suocera.

Trasmette loro il suo spirito religioso e la carità verso i poveri, patrimonio dei Realis come dei Richelmy.

La figlia primogenita (Carolina) si dà al servizio dei poveri tra le Suore della carità.

Agostino, il secondogenito, terminato il ginnasio frequenta come chierico esterno la facoltà teologica dell’Università di Torino; a vent’anni ottiene la laurea in utroque jure e nel 1873 è ordinato sacerdote.

Un’altra sorella, Clotilde, si consacra al Signore tra le Adoratrici perpetue del Ss.mo Sacramento.

Due figli, Olimpia e Camillo, muoiono di tifo in giovane età.

L’ultimo dei figli è Piero, che si diede alla carriera forense e dal quale discendono gli eredi che custodiscono la settecentesca Villa Richelmy di Collegno.

Una scena di vita domestica rivela lo spirito e il clima sereno di casa Richelmy.

Nei mesi di vacanza trascorsi nella villa, tutta la famiglia, grandi e piccoli, anche i domestici, prima di andare a dormire recitano insieme il rosario.

Clotilde, una delle sorelle, ricorda che “la stanza dei fratelli essendo vicina a quella di noi sorelle, la mamma veniva a sedersi tra le due porte a fare qualche lettura pia, quand’eravamo già a letto, ma noi piccole prepotenti, appena si volgeva un po’ di più verso i fratelli ci lagnavamo quasi leggesse solo per loro, come alla lor volta Agostino e Camillo brontolavano se la mamma si porgeva di più verso di noi, sicché la poverina alzava la voce per accontentare tutti” (Vaudagnotti, p. 13).

Lidia, che a Collegno ricordano come la madre dei poveri, insegna ai figli la carità fin dai più teneri anni.

Quando un povero bussava alla porta, Agostino e Carolina, o gli altri fratelli minori a lor tempo, andavano a far gli onori di casa. Davano un fascio di grissini o qualche pagnotta o qualche soldo, facendo però recitare l’Ave Maria e tracciare il segno di croce” (Vaudagnotti, p. 14).

Nel 1864 si restaura la chiesa di San Carlo, che è la parrocchia dei Richelmy.

A Natale i bambini ricevono i loro regali.

La piccola Clotilde ha un’idea: “E se li vendessimo tutti per fare la nostra offerta alla parrocchia?”.

I più grandicelli suggeriscono di fare una lotteria, in modo da guadagnare qualcosa di più.

Coinvolgendo le famiglie amiche, riescono a raggiungere la bella somma di 3.100 lire, che portano alla chiesa.

Nel 1892 la signora Lidia donò la villa di Ivrea al successore di Don Bosco per farne un’opera educativo-religiosa.

Accanto ad essa fu eretto un nuovo edificio, che inizialmente accolse aspiranti salesiani e studenti di varie nazionalità.

Durante la prima guerra mondiale vi fu ospitato il seminario diocesano e l’ospedale militare.

Nel 1922 l’Istituto, intitolato al Cardinal Cagliero, diventò casa di formazione per aspiranti missionari.

Ne sono usciti centinaia di missionari salesiani, partiti per l’India, l’Estremo Oriente e l’America Latina. Intorno agli anni ’70 il “Cagliero” è diventato Scuola Secondaria di I grado, alla quale in seguito si è aggiunta la Scuola Primaria.

Queste scuole sono oggi gestite da una équipe di laici, che condividono lo stile educativo e lo spirito di Don Bosco.

Il dono di Lidia Realis Richelmy, che una lapide ricorda all’ingresso, continua a portare frutti.

Francesco Mosetto

 

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Redazione Web