(Cristina Terribili)
“Parole, parole, parole…“ Mina cantava quanto le parole possano essere vane e, nella sua canzone, aveva ragione. Le parole però sono anche assimilate ad armi, ad oggetti in grado di ferire, tanto leggere quanto pesanti, ma non sono mai neutre, hanno sempre un effetto. Già in passato abbiamo trattato sulle parole della politica, quelle urlate, quelle violente che trascendono la ragionevolezza. Ora l’accento è sulle parole scritte, quelle della carta stampata, per esempio, perché anche i professionisti della scrittura hanno il dovere di fare attenzione alle parole che usano.
Lo spunto viene dal drammatico caso dell’omicidio di Elisa Pomarelli, la giovane ragazza piacentina uccisa da un ammiratore non corrisposto poi datosi alla fuga. Inutile ripetere i fatti che sicuramente sono conosciuti, e tanti avranno immaginato il triste epilogo già nei giorni subito dopo la scomparsa. Come spesso accade, chi ti fa del male non è una persona sconosciuta, una piccola percentuale di violenze è perpetrata da persone casuali. All’incirca nel 90% dei casi, l’aggressore e la vittima si conoscono. A me, ancora prima delle lezioni di criminologia e di psicologia giuridica alla facoltà di psicologia,lo insegnò Hannibal Lecter ne “Il silenzio degli innocenti” .
Hannibal spiega bene il desiderio malato, spiega che dietro a certi crimini c’è una malattia e che il crimine non è improvvisato, ma pensato, rimuginato, messo in atto da una serie di lucide sequenze. Per questo Elisa, così come tante altre donne, sono vittime più volte. Anche degli aggressori morali, magari muniti di penna.
La parola “amore” è oggi così tanto abusata da essere confusa e stravolta e diventare quasi il sinonimo di ossessione. Chi ama davvero non è invece ossessionato dalla persona a cui rivolge l’amore. Pensare a chi si ama ed essere ossessionati da chi si ama è diverso. La qualità dei pensieri è diversa, la coloritura emotiva è diversa. Chi è ossessionato non ama. Chi è ossessionato soffre di un disturbo psicologico, emotivo, di una disregolazione chimica. Comunque ha un problema che si affronta in altre sedi.
La parola amore non dovrebbe mai essere associata ad un femminicidio. L’amore è sinonimo di cura, di protezione, di tepore, di sostegno, di conforto. Nella lista non apparirebbe mai un termine negativo, perché l’amore non contempla il negativo.
Altra parola: l’ira, associata al raptus, allo scatto, alla possibilità di essere incontrollabile. Eppure anche nel mondo animale possiamo cogliere i segnali di un cambiamento di umore; certe posizioni del corpo sono inequivocabilmente ascrivibili ad un determinato comportamento che nasce da certe emozioni. Noi umani, invece, possiamo derogare a tutto questo, ignorare qualunque segnale, non prendere in considerazione una parte del cervello che ci distingue dagli altri animali e che ci dovrebbe rendere unici. L’incapacità di gestire la rabbia appartiene a categorie patologiche, ognuno di noi, se non malato, ha la possibilità di reagire a questa emozione in modo idoneo, senza far male a sé o ad altri.
La differenza tra qualcosa di sano e qualcosa di malato non è sempre sottile. La differenza sta nella qualità, nella quantità e nell’intensità degli elementi che lo compongono. Quello che è sano fa sempre bene, quello che è malato va aiutato, curato. La giustezza della pena e il sostegno medico, psichiatrico, psicologico, a chi ha commesso un atto criminale vanno assicurate, ma alle vittime dobbiamo una cautela infinita. Abbiamo il dovere di essere cauti nelle descrizioni, dobbiamo essere protettivi per tutto quello che le riguarda, perché è stata tolta loro la parola: non possono più esprimersi, non possono controbattere, non possono farsi intervistare, andare ai talk show, guadagnare gettoni di presenza. Perché hanno già subito tanta violenza, sono state private dell’amore dei cari, perché qualcuno ha deciso che dovessero smettere di sognare.