(Fabrizio Dassano)
Il carnevale si sa qui a Ivrea è importante.
Lo si vede da come anche l’arredo urbano ogni anno cambia e si rinnova con stendardi, bandiere, murales… come quello sul palazzo della Posta in cui tutte le squadre sono raffigurate inginocchiate davanti alla Pantera. Quest’anno c’è addirittura un panterone nero in mezzo alla rotonda poco discosta, in piazza Balla, solo per citare gli elementi più evidenti: troneggia su un piedistallo in mezzo alla famigerata rotonda allargata, quella a cui tutti gli automobilisti devono per forza prestare omaggio, rallentando se non addirittura fermandosi al suo cospetto.
In questo periodo, non c’è che dire, la vitalità della città esce fuori in maniera genuina: squadre di arancieri che montano fin dal mattino i vessilli per interi quartieri dando l’assalto ai pali della luce, oppure strutture lignee che diventeranno punti ristoro da vin brulé, forse la bevanda ufficiale del carnevale perché fatto anche con le arance. Anche senza essere patrimonio Unesco, il carnevale eporediese è più vivo che mai con un numero di carri da getto e relativa cavalleria di tutto rispetto.
Si, perché il carnevale di Ivrea lo si sente davvero passando per le strade come sempre: giorno dopo giorno lo senti crescere sempre di più, diviene sempre più vistoso, immanente e la formula meravigliosa che nasconde è quella di rendere un’intera comunità meno sola, più unita, più socializzante… in tempi di bieco individualismo digitale come quelli che stiamo vivendo, non è poca cosa. Lo capisci anche la sera quando esci tardi dal lavoro perché c’è più gente in giro, c’è più voglia di parlare, di ridere.
Ad ogni carnevale, quando penso ai riti e alle tradizioni che ne costituiscono l’ossatura, mi viene in mente il mio vecchio professore dell’Università di Torino, Gian Renzo Morteo, che fu traduttore di Jonesco per Einaudi e tenne fino alla scomparsa la cattedra di Storia del Teatro. Ebbene, egli non perdeva mai occasione per ricordare come la nostra cultura teatrale, dello spettacolo popolare, fosse troppo legata ai documenti scritti (lui dava la colpa a Silvio d’Amico) e sosteneva che il senso di una civiltà andasse cercata in quell’apparente effimero che senza troppe ricostruzioni filologiche letterarie, di fatto era vivo. Mandava noi, giovani studenti, in giro per feste e sagre paesane col piglio dell’antropologo a cercare antichi riti cristallizzati nella tradizione di un sano e genuino pubblico divertimento. Ci aveva insegnato a guardare con rispetto la gente che si divertiva e faceva divertire. E credo anche questa non sia una questione di poco conto, tutt’altro.