(Ferdinando Zorzi)
Mangiare della carne di una persona, bere del suo sangue: un’idea estrema, difficile da accettare nel suo senso letterale e da interpretare nel suo senso ideale. Problematica ai tempi di Gesù, tant’è che i Giudei “si misero a discutere aspramente tra loro” e scandalosa ai giorni nostri, divenuti sempre più impersonali e asettici. Forse più facile da comprendere in quel periodo profondamente cristiano e concreto che fu il Basso Medioevo.
La fisiologia medievale riconosceva nel cuore non solo l’organo vitale fondamentale, ma anche la sede dei sentimenti, e dell’amore innanzitutto, idea che è rimasta viva in molte espressioni della lingua italiana. Perciò innamorarsi equivaleva a “farsi mangiare” il cuore dall’altra persona, e non deve stupire che il diciottenne Dante Alighieri racconti, nel suo primo sonetto, A ciascun’alma presa e gentil core, di aver sognato che Amore teneva in mano il cuore del poeta, per poi darlo da mangiare a una Beatrice appena risvegliata dal sonno.
Un’immagine forte, senza dubbio, come quelle usate da Giovanni Boccaccio nel “Decameron”. Nella nona novella della quarta giornata, dedicata agli amori infelici, si racconta di una donna costretta dal marito a mangiare, inconsapevolmente, il cuore dell’amante e si legge che questa donna afferma di averlo gradito molto e (una volta saputa la vera natura della vivanda) di non voler mangiare più altro. Fantasie sanguinarie? Non del tutto, se pensiamo che questo testo prende ispirazione dalla biografia di un poeta provenzale.
Per la sensibilità del tempo, mangiare la carne, bere il sangue di una persona, come se fossero pane e vino, significava assorbirne la vita e l’amore, rimanendo in comunione per sempre. Quell’epoca aveva compreso ed elaborato le parole di Gesù, al punto da riferire agli amori terreni più grandi e profondi ciò che l’amore di Dio aveva chiaramente promesso e rinnovato nell’Eucarestia: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».