(Ferdinando Zorzi)

Capita spesso, negli ultimi tempi, che i media riportino con grande enfasi avvenimenti di cronaca nera e, immancabilmente, segua l’intervista con un parente stretto della vittima, il quale dichiara di non perdonare chi ha commesso il delitto. A parte la discutibile opportunità di tali interviste “a caldo”, resta il fatto che tendiamo a immedesimarci in questo tipo di risposte: comprendere e accettare la logica del perdono, a livello umano, è estremamente difficile.

Nel Vangelo di questa domenica Gesù usa due tipi di spiegazione del perdono: una immediata e iperbolica, «fino a settanta volte sette», e una complessa ed esemplare, basata su un meccanismo molto diffuso nelle società antiche, vale a dire la servitù per debiti. Quasi tutte le comunità precedenti al Cristianesimo conobbero forme di schiavitù, condizione in cui o si nasceva (da genitori a loro volta schiavi) o si cadeva per due vie: essere catturati come prigionieri di guerra o contrarre un debito tale da non poterlo restituire, vendendo se stessi, la propria libertà e il proprio lavoro per estinguerlo.

Non sarà inutile ricordare che, proprio a partire dagli insegnamenti cristiani, la schiavitù fu messa in discussione anche dove sembrava indiscutibile, ma è anche vero che, nei secoli, essa non è scomparsa e ha continuato a ripresentarsi in varie forme. Il filosofo tedesco Hegel ha parlato di dialettica tra signore e servo per spiegare come, attraverso la lotta e la sottomissione, l’essere umano cerchi di affermarsi. La Letteratura poi è piena di servi e padroni, dal cameriere della Locandiera di Goldoni al Leporello di Don Giovanni, che sembrano proprio non poter fare a meno gli uni degli altri.

Il perdono, il dono gratuito, è lo scarto di logica che consente di spezzare la catena del debito e la schiavitù del male. Se nessuno inizia a perdonare, il circolo vizioso si perpetuerà, ma in ogni momento c’è la possibilità dell’azione positiva e liberante, poiché solo chi rimette ai propri debitori potrà legittimamente pregare “e rimetti a noi i nostri debiti”.

(Mt 18,21-35)

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.
Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari.
Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle,
andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».