IVDOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore

(Elisa Moro)

L’immagine del “buon pastore”, proposta nel Vangelo (Gv. 10, 11-18), è tra le più care alla tradizione cristiana, fino a ritrovarla negli affreschi delle catacombe; Cristo è il pastore che afferma: “io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare” (Ez 34, 11-12.14).

Per ben tre volte, in questo brano, compare l’espressione “buon pastore”, che si rivela tra le più complete definizioni cristologiche: è il“(buon) bel (kàlos) pastore” (v.11), icona visibile dell’eterna bellezza del Padre. Il bello, non soltanto estetico, la via pulchritudinis, appare oggi di particolare urgenza educativa nell’attuale società e nella Chiesa, per recuperarne il senso profondo, che attrae verso l’assoluto: “solo la profondità che non si manifesta dà al fenomeno del bello il suo carattere affascinante” (Von Balthasar, Gloria, p. 373). Il bel Pastore, perfetta sintesi del più bello tra i figli dell’uomo e dell’uomo dei dolori, è il modello di una vita appassionata, che si fa prossima, nella Chiesa, nella Liturgia, come nel caso della conversione del poeta Claudel: “in un istante il mio cuore fu toccato ed io credetti, con una tale forza, che non lasciava posto a nessun dubbio”.

Offerta e intima amicizia con il Pastore; questi i tratti che si possono cogliere dalla pagina giovannea.

Offerta: il pastore “offre” la sua esistenza (v.11), la dona totalmente, dimostrando che non è il potere a redimere, ma l’amore. L’essenzialità del mistero della Croce è al centro dell’incontro con Gesù vivente e della sequela: “cerco quello che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi” (Ignazio di Antiochia, Romani, VI); non la si può respingere, costruendo un Cristianesimo semplificato: “per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile” (Abate Teodoro, Discorso sulla croce, 99).

Intima amicizia: “e le mie pecore conoscono me” (v. 15). Quella di Cristo non è “una conoscenza astratta, intellettuale”, ma “liberatrice, che suscita fiducia” (Giovanni Paolo II, 16/05/1979) e apre al bisogno di Qualcuno. Occorre domandarsi se veramente si conosca il Pastore, che conduce “non solo alla conoscenza della fede, ma anche a quella dell’operare” (Gregorio Magno, Om. 14, 3-6).

Conoscere il Pastore non può condurre a vivere in ovili tranquilli, dove ci si prende cura di chi è rimasto, mantenendo “la posizione”; l’incontro con il Risorto è il punto di partenza per annunciare Cristo, dunque: “duc in altum!” (prendiamo il largo).

(Gv 10,11-18) In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».