(Fabrizio Dassano)
Dopo un anno sono tornato al Poliambulatorio di Ivrea per degli esami di routine. Devo dire che rispetto alla vecchia sede di Casa Molinario il nuovo sito è decisamente migliore: moderno, accogliente, riscaldato. Poiché fa freddo, gli sportelli aprono alle 7.30 e non mi voglio fare troppo coda al di fuori, piombo con l’automobile per posteggiarla nel parcheggio del vicino supermercato. Poi attraverso la strada e solo allora mi accorgo della lunga coda, come in una litografia dantesca di Gustave Dorè.
La porta è ancora chiusa, sono in anticipo e mi tocca stare al fondo della coda. Ma trovo subito un conoscente, un arzillo vecchietto ultraottantenne che dopo un paio di battute, all’apertura della porta d’ingresso, saetta come un fulmine tra il dilagare della massa dopo aver preso il biglietto con il numero. Non riesco a stargli dietro. Con in mano il numero (alto) che sono infine riuscito a conquistarmi, attendo il mio turno in piedi: le sedie in sala d’aspetto sono subito esaurite e occupate normalmente dai più anziani. Ho un filo di mal di schiena ma tant’è, posso resistere in piedi e poi sono stato coricato tutta la notte!
La storia del digiuno inizia a farsi sentire mentre i numeri scorrono implacabili per il prelievo del sangue e la consegna delle urine. Ho anche altre visite da prenotare, ma quello si può fare solo dalle 9 in poi. Amen, attenderò dopo il prelievo.
Poi incontro un’altra conoscente che ha già terminato, ci si scambia un paio di battute veloci tra la folla, ci si accommiata con un saluto. Guardo con malcelata invidia quelli che hanno già dato e ora affollano i distributori automatici del caffè e delle brioches; ai lati della sala, le macchine dell’esazione dei ticket macinano senza tosta; in centro la platea seduta osserva come un mantra i tabelloni su cui scorrono i numeri.
Osservo con sospetto una certa ciclicità nei numeri che appaiono sui diversi schermi elettronici: noto infatti la mia lettera che accompagna il numero di turno, sinistramente compare sempre allo sportello 2. Astutamente mi piazzo proprio davanti allo sportello, pronto al balzo. Tocca a me, ma esce lo sportello 12! Accidenti, devo ripercorrere quasi tutto il corridoio al contrario.
Arrivo ansimante, faccio tutto, prendo il foglio del ticket, vado a pagarlo alla macchina, infilo il foglio per la lettura del codice a barre, la tessera sanitaria, il bancomat per pagare… tutto fila liscio, vado a prendere l’altro numero per la fila del prelievo… e incontro un collega: ci siamo parlati ieri, non abbiamo tempo, solo un cenno di sorpreso saluto, anche perché quasi subito compare il mio nuovo numero su un altro tabellone: altra fila, alla fine della quale ci sono tre infermiere dietro il bancone che danno le provette e alle quali consegno un barattolo sterile con la “prima urina del mattino”. Quella che lo ritira mi guarda e mi dice: “Così non va!”. Mi rifila un paio di guanti di lattice e mi congeda dicendomi: “Vada in bagno e faccia un travaso, poi torni qui”. Accidenti, un travaso! Devo prendere le due provette canoniche, i guanti, il vasetto blasfemo delle urine e fiondarmi in bagno con tutto ciò in mano.
Dov’è il bagno? Facendo uno slalom pazzesco passo davanti alla coda di persone davanti alle macchine dei ticket, sfioro le altre persone con il loro bicchiere di plastica del caffè o del cappuccino e mi infilo nel bagno. Qui non c’è una superficie piana: dove posare le varie cose? L’unica è abbassare il coperchio del water e usarlo da tavolino. Quindi mi infilo i guanti ed eseguo gli ordini dell’infermiera; poi cestino il vasetto blasfemo e i guanti, mi precipito alla coda del prelievo. Niente da fare, il mio numero è stato chiamato tre volte, torno al via e mi danno un numerino su un dischetto rosso per il solo ambulatorio in fondo a sinistra. Lì ci sono tante vecchiette, mi siedo tre minuti abbozzando una conversazione sul fatto che la signora che mi siede vicino non sa se in mano ha il 6 o il 9….
Tocca a me e mi siedo davanti ad una gentilissima infermiera, si scambiano due parole ridendo… per fortuna, perché lei deve aver intuito benissimo la ragione del mio pallore: non nel forzato digiuno mattutino, non nell’attesa prolungata, ma nel terrore (del prelievo).