Pietro Meaglia nacque a Rivarolo Canavese il 21 maggio 1866 ed era mio nonno. Per tutte le persone che lo conoscevano era ’l “Cerin, soprannome dato già ai suoi genitori e avi per il loro viso smunto: doveva essere una caratteristica familiare. Per la sua intera vita fece il contadino, ma era molto conosciuto e apprezzato come campanaro e non solo a Rivarolo: per la sua abilità veniva spesso invitato nei paesi vicini in occasione di particolari solennità. Un giorno volli vederlo all’opera, così salii le scale in legno che portavano sul campanile e vidi come, attaccati ai batacchi, avesse legato dei tiranti alle cui estremità erano state poste delle fasce, che il nonno avvolgeva due alle ginocchia e due alle mani. In base ai movimenti effettuati con maestria, ne fuoriusciva una melodia ritmata, ben in sintonia con i suoni delle singole campane: rimasi affascinato da tanta ingegnosa abilità esecutiva.

Nonno Pietro fu soprattutto un gran camminatore: nell’arco della sua vita non l’ho mai visto salire su una bicicletta, tanto meno su un mezzo motorizzato. La sua più grande testimonianza a riguardo rimane l’impresa di un lungo viaggio a piedi compiuto come pellegrino, nell’Anno Santo 1933, alla non indifferente età di 67 anni: da Rivarolo a Roma e ritorno, rigorosamente a piedi nudi. Partì infatti con un paio di stivaletti nuovi, ma per non sciuparli li indossò solo una volta arrivato in San Pietro.

Qualche tempo fa ritrovai casualmente il suo diario di viaggio, dal quale risulta evidente – sia dai timbri rilasciatigli dalle parrocchie dove aveva pernottato, sia dai nomi delle località attraversate – come egli compì un percorso allargato, spingendosi in direzione di Bologna per poi discendere a Firenze e Siena, e proseguendo lungo l’itinerario finale della Via Francigena alla volta di Roma. Inoltre, dalle date indicate nel suo libretto, è possibile notare una percorrenza media di ben 40 chilometri giornalieri, cosa che gli permise di raggiungere la capitale in soli 20 giorni. Senza dimenticare un suo eccezionale exploit personale nel momento in cui decise di affrontare la tratta Bologna-Firenze in un sol colpo, camminando ininterrottamente, giorno e notte, per quasi un centinaio di chilometri.

Dopo aver scollinato l’Appennino, verso sera, un contadino che discendeva a Firenze con il suo carro gli domandò se volesse un passaggio: “Ma no, basta che io mi appoggi con le braccia dietro al tuo carro, cosi potrò continuare a camminare ancora un poco”, gli rispose. Alle prime luci dell’alba era ormai alle porte di Firenze, occasione per riposarsi almeno per un giorno prima di riprendere il cammino.

Una volta giunto a destinazione e reso omaggio al soglio di San Pietro, non si fermò molto nemmeno a Roma: dopo un paio di giorni nella capitale si era evidentemente già stufato di rimanere troppo fermo. E cosi decise di tornare a casa, seguendo questa volta la costa tirrenica per raggiungere la Liguria ed alcuni parenti ad Albenga, arrivandovi a notte fonda: non fu che una breve tappa, un momento necessario per riprendere le forze e poi via, scollinando in Piemonte per far ritorno verso casa.

Nel 1950, in occasione del successivo Anno Santo, a 84 anni di età decise incredibilmente di ritentare l’impresa: giunto ad Alessandria dovette però rinunciarvi, per i crampi che gli impedirono di proseguire.

Ricordo che ad 88 anni d’età sparì improvvisamente e dopo tre giorni che mancava da casa, sua figlia Angela (mia zia) mandò il nipote a cercarlo, essendosi preoccupata. Tutti gli anni, nei mesi autunnali il nonno era solito incamminarsi per un giro delle parrocchie canavesane ove era conosciuto: in quella specifica occasione, il nipote lo ritrovò a Settimo Vittone, nella chiesa di un suo amico parroco. Alle rimostranze per la sua assenza da casa, nonno Pietro rispose deciso che: “Non mi son perso nel viaggio per Roma, volete mica che mi smarrisca qui in Canavese … “. E quando il nipote gli propose: “Nonno, salite sulla Vespa che vi riporto a casa”, egli replicò che sarebbe ritornato più volentieri a piedi il giorno dopo, raccomandandogli di tranquillizzare la zia.

Un’altra volta, invece, incontrando un tizio che dubitava delle sue qualità di camminatore, Pietro lo sfidò a salire direttamente la Quinzeina da Rivarolo (circa 2mila metri di dislivello, solamente in salita). Partirono, e nell’ascesa mio nonno lasciò sfogare il più giovane compagno, ma nell’ultimo tratto lo affiancò ed arrivarono cosi in cima assieme. Al momento di tornare si alzò una fitta nebbia ma lui, che ben conosceva il percorso, si mise a saltare come una capra, al che lo sfidante cominciò ad urlare, pregandolo di fermarsi e giurando che mai più lo avrebbe deriso. Pietro lo attese, e tornarono a casa assieme.

Terminò la sua vita terrena a 92 anni il 23 marzo del 1958 a causa di una broncopolmonite, che la sua pur forte fibra non riuscì a superare. Il suo funerale fu imponente: dietro al feretro c’erano tutte le autorità della “sua” Rivarolo ma anche dei paesi limitrofi, presenti varie associazioni con i rispettivi vessilli, mentre il corteo funebre era aperto dai frati di Belmonte, che ben lo conoscevano e l’avevano sempre stimato per la sua assiduità nel visitare il Santuario.

Ancora per qualche anno, quando le campane di San Michele a Rivarolo risuoneranno, ci sarà chi ancora si ricorderà di quel suono tondeggiato che andava a perdersi nel cielo canavesano, ripensando al caro Cerin.