(Doriano Felletti)

La comunità scientifica ha, in diverse circostanze, messo in discussione i principi dell’omeopatia ritenendo che non vi siano studi pubblicati su riviste mediche che abbiano dimostrato che un trattamento omeopatico presenti, per una qualsiasi malattia, un’efficacia terapeutica superiore a quella della medicina tradizionale. La nostra dissertazione non intende entrare nel merito degli aspetti scientifici, ma solo ripercorrerne il percorso storico.

L’omeopatia nacque alla fine del XVIII Secolo, grazie al contributo di Samuel Hahnemann (Meißen, 10 aprile 1755 – Parigi, 2 luglio 1843). Dopo la laurea in Medicina si avviò alla carriera di medico che abbandonò in fretta, essendosi reso conto dell’inefficacia delle cure impartite ai suoi pazienti sulla base delle teorie della medicina tradizionale del tempo che aveva basi empiriche: non prevedeva la determinazione della diagnosi di una malattia, ma si limitava a curarne i sintomi con terapie spesso più letali del malanno stesso.

L’idea di Hahnemann intendeva confutare le speculazioni teoriche di molti suoi colleghi che non portavano ad alcun miglioramento nei pazienti. Egli riteneva che i medici trattavano le malattie come “materia morbosa” da eliminare dal sangue e dal corpo tramite metodi depletivi atti a ridurre la quantità di liquidi nell’organismo (quali la flebotomia e le purghe) secondo la teoria del contraria contrariis curantur (la cura è un’azione antagonista alla malattia), mentre per Hahnemann le cause della malattia, quando non riconducibili a fattori anatomici, chirurgici o a carenze nutrizionali, erano immateriali, legate alla perturbazione della “forza vitale”, il principio dinamico che consentiva la vita. I sintomi della malattia erano l’espressione di queste alterazioni. Nella sua opera La medicina dell’esperienza del 1806, Hahnemann riportava le sue idee, fondanti dell’omeopatia: fra tutte, la teoria del similia similibus curantur (la cura è un’azione simile alla malattia). In pratica, per curare una malattia il medico doveva registrare tutti i sintomi del paziente e trovare un medicamento che, sperimentato su di un soggetto sano, riproducesse artificialmente una malattia la più simile possibile a quella registrata dal malato. La sostanza così individuata, opportunamente diluita, avrebbe potuto curare sintomi identici a quelli che era in grado di produrre nell’individuo sano. Il dosaggio doveva essere il minimo indispensabile, in modo da evitare gli effetti avversi.

I medicamenti erano preparati triturando finemente i principi attivi (prodotti di derivazione vegetale e animale, sostanze chimiche e minerali) e diluendoli con una soluzione di acqua e alcool; la diluizione rendeva più efficace il medicamento che veniva ulteriormente potenziato in fase preparatoria attraverso gli scuotimenti (le succussioni).

L’omeopatia, al suo esordio, risultava meno invasiva della medicina tradizionale e raccoglieva successi nella cura delle epidemie: ciò contribuì a rendere popolare la diffusione del nuovo metodo terapeutico.

L’omeopatia arrivò in Italia nel 1821, attraverso l’opera dei medici dell’esercito austriaco, chiamati a Napoli dai regnanti Borbonici per sedare le sommosse. Uno di essi, Giorgio Necker di Melnik, si stabilì nella città partenopea e aprì un dispensario. I suoi successi in campo terapeutico attirarono l’attenzione di Cosmo Maria de Horatiis, il medico del Re Francesco I di Borbone, e di Francesco Romani che divennero suoi allievi. Il primo studio italiano sull’omeopatia (Il sistema medico del dott. Samuel Hahne-mann) fu pubblicato a Napoli nel 1824. Le altre zone d’Italia raggiunte dalla nuova metodologia furono la Sicilia, Roma e gli Stati Pontifici e, via via, la Toscana, la Liguria, la Lombardia ed il Piemonte, ove fu inizialmente osteggiata. Alle riserve avanzate dal Magistrato del Protomedicato della Regia Università di Torino rispose Carlo Alberto riconoscendo “la convenienza di lasciare all’azione del tempo di discreditare la pratica delle cure omeopatiche se si riconoscesse illusorio o chimerico quel metodo, ovvero di mettere in maggior evidenza quel che può contenere di reale e di utile”. Il Regio biglietto del 9 febbraio 1839 consentì ai farmacisti di tenere “spezierie di rimedi omeopatici, in sito separato dalla spezierie ordinarie”.

Nel 1839 la Piccola Casa della Divina Provvidenza aprì il primo reparto di Clinica Omeopatica dove, nel 1842 durante una epidemia di tifo petecchiale, guarirono tutti gli 80 pazienti trattati omeopaticamente.

Nel 1834 vi erano sul territorio italiano oltre cinquecento medici omeopatici. Tra questi, anche un canavesano: Pietro Antonio Mario Fioretta. Nacque a Vische il 22 ottobre 1800 da Barto-lomeo e da Orsola Bertone e studiò medicina all’Univer-sità di Torino, ove si laureò nel 1824. Iniziò la sua attività professionale come medico condotto del suo paese natale e fu presto attratto dalle teorie alla base della medicina omeopatica, forse dopo i fondamentali incontri con Maurizio Poeti, medico che fu fautore della diffusione delle teorie a Torino, e soprattutto con Vincenzo Chiò (Crescentino 1793 – 21 febbraio 1846), uno dei più convinti omeopati piemontesi che aveva studiato a Parigi sotto la guida del Dottor Hahnemann.

Fioretta iniziò pertanto a dedicarsi alle pratiche omeopatiche e i primi riscontri lo indussero ad approfondire studi ed esperienze; è documentata una guarigione di un caso di idrofobia con medicamenti omeopatici. All’inizio del 1846 si trasferì a Torino, dove prestò le proprie cure al Dottor Chiò, gravemente malato che morì nel febbraio di quello stesso anno. Il suo impegno nella diffusione delle nuove pratiche e le indubbie capacità in campo medico lo portarono ad essere nominato, con Regio Decreto, direttore del reparto omeopatico del-l’Ospedaletto di Santa Filo-mena, opera nata dallo spirito caritatevole del Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo e di sua moglie Giulia Colbert per l’assistenza alle ragazze disabili povere dai 3 ai 12 anni, inaugurato nel 1845 a Torino nell’attuale Via del Cottolengo, organizzato su due piani, uno destinato alle cure allopatiche, l’altro destinato alle cure omeopatiche e dove il primo direttore spirituale fu Don Giovanni Bosco. Nel 1854 Pietro Fioretta si trasferì a Parma, dove ebbe l’incarico di medico presso la corte della Duchessa Luisa Maria di Borbone.

Nel 1855 salvò la vita, curandolo con il metodo omeopatico, al di lei figlio Roberto I di Parma di 8 anni che era reggente dopo l’assassinio del padre Carlo III di Borbone e che aveva contratto il colera. Il successo conseguito gli valse la riconoscenza della Duchessa che lo nominò Cavaliere dell’Or-dine Costantiniano e gli affidò la direzione dell’ospedale omeopatico, allestito nel Palazzo del Giardino, per curare i cortigiani e i sudditi colpiti dal colera.

Tornato a Torino, riprese la direzione del reparto omeopatico dell’Ospedaletto di Santa Filomena, che mantenne fino al 1860. Fu anche collaboratore del Giornale di medicina omiopatica, fondato nel 1848 e diretto da Maurizio Poeti. Scrisse diversi saggi che contribuirono alla divulgazione della dottrina e del metodo, tra cui Osservazioni e precetti dietetici da osservarsi specialmente nella cura omiopatica delle malattie tanto acute che croniche (1848), Della cura omiopatica del cholera coll’indicazione dei mezzi di preservarsene (1849), Breve cenno intorno al modo di comportarsi nelle influenze morbose (1855), Manuale omeopatico di ostetricia, ossia soccorsi che l’arte ostetrica può trarre dall’omeopatia (1856).

Fu membro della Società hahnemanniana di Parigi, dell’Istituto omeopatico del Brasile e delle Accademie omeopatiche di Palermo e di Torino. Fece inoltre parte del Comitato preparatorio, di cui fu presidente onorario, che stilò lo statuto dell’Istituto Omeopatico Italiano, fondato a Torino nel 1871 e divenuto ente morale con Regio Decreto del 24 gennaio 1886. L’Istituto, il 1° giugno 1890, inaugurò a Torino in via dell’Orto Botanico 16 (poi via Cesare Lombroso) l’Ospedale omeopatico, unico in Italia. Il nosocomio forniva cure gratuite, era dotato di 6 letti e fino al marzo 1902 diede assistenza a 473 pazienti. Ma l’omeopatia, fin dalle sue origini, era soggetta ad alterne fortune e, nel 1940 l’ospedale fu declassato a cronicario fino alla chiusura, avvenuta nel 1984.
Pietro Fioretta, ritiratosi a Vische, vi morì il 14 dicembre 1879. Fu valente medico omeopata anche suo figlio Vittore Fioretta che morì all’età di trent’anni a Vische il 7 aprile 1863.