(Michele Curnis)

La seconda metà del canto VII del Purgatorio è dedicata all’enumerazione di imperatori, principi e feudatari – la cui morte si colloca negli anni dell’adolescenza o gioventù di Dante – che disattesero i loro compiti politici, trascurarono i sudditi o non si curarono dell’Italia, intesa come territorio imperiale. L’antefatto di questo episodio è semplice: trovandosi ancora nell’antipurgatorio, Dante e Virgilio si imbattono nello spirito solitario di Sordello da Goito.

Questi, felice di aver incontrato in Virgilio un suo conterraneo, conduce Dante e la sua guida presso un avvallamento della montagna, dove soggiornano i “principi negligenti”. Da un ripiano superiore, Sordello rivela a Dante e a Virgilio l’identità delle anime più illustri: l’imperatore Rodolfo I d’Asburgo (1218-1291), Ottocaro II di Boemia (1230-1278), Filippo III l’Ardito, re di Francia (1245-1285), Enrico I di Navarra (1244-1274), Pietro III d’Aragona (1239-1285), suo figlio Alfonso III (1265-1291), Carlo I d’Angiò (1226-1285) ed Enrico III d’Inghilterra (1207-1272).

L’enumerazione si conclude con un feudatario imperiale e condottiero, che Dante certamente ammirava, ma delle cui campagne militari si ricordano le conseguenze perniciose. «Quel che più basso tra costor s’atterra, / guardando in suso, è Guiglielmo marchese, / per cui e Alessandria e la sua guerra / fa pianger Monferrato e Canavese» (vv. 133-136). Le menzione di Guglielmo VII (1240-1292), marchese di Monferrato e discendente della dinastia aleramica, provoca anche la referenza al Canavese, regione italiana che soffre (piange) insieme al Monferrato.

In primo luogo, Dante chiama la terra “Canavese”, avvicinandosi alle forme dei documenti dei secoli XI-XII (Canaveso, Canavise, Cana-ves), i cui corrispondenti latini sono Canavexium, Canavixium o Canavisium, mentre nelle cronache e nelle opere letterarie dei secoli XIII-XIV è ormai invalso l’uso del toponimo Canapicium o Canepicium, a suo tempo definito da Ferdinando Gabotto un «tardo raffazzonamento pseudo erudito» (il titolo originale della monografia che Pietro Azario scrisse relativamente agli anni 1339-1362 è De statu Canepicii liber, generalmente – ma poco precisamente – citato come De bello Canepiciano).

In secondo luogo, si potrebbe supporre che la menzione del Canavese costituisca solo un’appendice di quella del Monferrato, visto che il protagonista politico del passaggio è il marchese di questo territorio. In realtà, la questione del nome (e della sua valenza) è molto più complessa. Se gli studiosi di Dante dicono generalmente che i due toponimi hanno un significato politico, più che geografico, ossia identificano più il potere di un titolo feudale che non il territorio su cui esso si esercita, è però vero che non si può paragonare la fama dei marchesi del Monferrato con quella dei conti del Canavese, titolo di per sé ambiguo e relativo a una tradizione inveterata, non già dipendente da un privilegio giuridicamente stabilito (la prima valenza non geografica ma tecnica del toponimo sembrerebbe risalire a un documento novarese del 1095-1096, in cui compare un «Obertus comes Canavesanus»).

Che cosa poteva sapere Dante del Canavese e secondo quale accezione principale ne citava il nome? Se anche i confini geografici di questa remota porzione dell’Italia settentrionale dovevano essergli (quasi) del tutto sconosciuti, il poeta sceglie comunque di concludere un canto della Commedia con il termine “Canavese” (o, se si preferisce, con il binomio “Mon-ferrato e Canavese”). La considerazione non è ovvia: per chi conosce le peculiarità del poema, tale scelta è rimarchevole e bisognosa di una spiegazione. Le clausole dei canti, infatti, non sono mai un semplice riempitivo del testo, neppure nella prima parte del Purgatorio; al contrario, il canto V si chiude con la luminosa immagine della gemma nuziale di Pia de’ Tolomei, che rischiara almeno per un istante tutta la fosca atmosfera delle precedenti narrazioni; il canto VI con la similitudine tra Firenze e un’ammalata che non riesce a trovare pace neppure in un letto di piume; ed ora il canto VII con il pianto dei sudditi, attraverso la personificazione di due terre italiane, contigue e in lotta tra loro. Identificando territorio e popolo, dunque, il poeta rimarca alla fine del canto VII il tema fondamentale del VI: la divisione interna dell’Italia e la consunzione delle forze politiche in inutili lotte fratricide.

Contrapposto all’inizio della digressione politica del canto VI («Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!», vv. 76-78), il finale del VII ne è il completamento, con la riprova che il territorio italiano è tutto diviso e in lotta. È del tutto improbabile che Dante collegasse il territorio canavesano a una personalità individuale, come fa invece con il marchese del Monferrato, di cui stigmatizza la valentia militare e la nobiltà. Nella menzione del Canavese prevale piuttosto l’allusione alle sue genti, secondo l’asserzione del canto VI: «le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene» (vv. 124-126). Il malessere e le incertezze determinati dalle guerre si riflettono anche sull’istituzione ecclesiastica più importante del Canavese, ossia la diocesi di Ivrea: i suoi vescovi convocarono tra 1290 e 1328 sette sinodi, evidentemente per far fronte a un periodo di crisi prolungato e particolarmente difficile.

Come scrisse Amato Pietro Frutaz, è probabile che lo scopo delle sessioni sinodali fosse di «restaurare il culto, ravvivare la disciplina nel clero e nel popolo, e arginare la decadenza religiosa favorita dalle lotte fratricide e distruttive delle due fazioni in lotta».

Tuttavia, resta da interpretare con chiarezza storica il verso relativo a Guglielmo, «per cui Alessandria e la sua guerra»; esso significa letteralmente che “per colpa di Guglielmo, Alessandria e la guerra da questa sollevata” fanno piangere il Monferrato e il Canavese. Ma di quale guerra si tratta? Quella che Guglielmo condusse contro Alessandria nel 1290, cadendo poi nella trappola di chi voleva imprigionarlo e ucciderlo? Oppure la guerra che suo figlio, Giovanni I di Monferrato, condusse contro Alessandria tra 1294 e 1295 per vendicare l’orrenda morte del padre? Oppure ancora, Dante allude al pianto dei sudditi dell’alta Italia negli anni in cui sta componendo il Purgatorio (circa 1309-1315), come risultato di una serie di conflitti che Guglielmo e il suo casato non avevano saputo comporre?

Gli storici che abbiano posto in relazione le vicende canavesane dopo la morte di Guglielmo e la menzione dantesca del Canavese si limitano a ipotizzare che i tentativi di rivalsa di Giovanni abbiano coinvolto anche il territorio canavesano in nuove guerre e violenti conflitti. In realtà, l’aristocrazia canavesana riunita nella Confederatio de Canapicio si era divisa già nel 1252: i conti di San Martino e i Castellamonte avevano scelto la parte guelfa, sostenuta dai Savoia; i Valperga, i Masino e i San Giorgio avevano deciso di parteggiare per l’imperatore, alleandosi successivamente con Guglielmo e condividendo le lunghe lotte del marchesato prima contro Ivrea, poi contro Asti e Alessandria.

In ogni caso, va osservato che il verbo piangere, del Monferrato e del Canavese, nel testo di Dante è coniugato al presente, come accade pochi versi prima con la contrapposizione tra la virtù regale di Carlo d’Angiò e l’inadeguatezza del figlio (Carlo II), che provoca il dolore di Puglia e Provenza: «Anche al nasuto vanno mie parole […] onde Puglia e Proenza già si dole» (vv. 124-126). Il parallelismo dimostra che Dante sta alludendo alle sofferenze attuali del Canavese, ossia alla situazione politica dei primi anni del Trecento.

Nella foto: Milano, Biblioteca dell’Archivio Storico e Trivulziana, manoscritto 1080 (redatto nel 1337 da Francesco di Ser Nardo da Barberino e contenente il testo della Commedia), f. 42r: la terzina finale del canto VII del Purgatorio, con la menzione del Canavese