Nel film di Amelio non si vive una vera battaglia, non c’è la descrizione dei combattimenti, ma appare ovunque l’idea di ciò che è stata la Prima Guerra Mondiale: un massacro di vite innocenti e giovani.
Incombono vere e proprie montagne di soldati ormai cadaveri: a un tratto però spunta una mano viva che si muove (una concessione all’horror che si permette il regista); poi la scena si sposta negli ospedali militari e nell’ambiente medico con i due protagonisti della storia.
Friuli-Venezia Giulia, 1918. Giulio e Stefano sono amici dall’infanzia: hanno condiviso le amicizie e la scuola, poi si sono laureati in medicina. Ma la guerra è un teatro doloroso e le loro scelte diventano a volte contrapposte: Giulio (Alessandro Borghi) ora è medico e ufficiale, si impietosisce di fronte a tanto dolore e decide di aiutare chi non vuole tornare al fronte. Occorre per questo peggiorare le condizioni dei feriti in modo che non possano tornare a combattere.
Stefano è invece molto ligio al dovere e rispettoso delle regole, considera “miserabili simulatori” quelli che si procurano lesioni per evitare l’arruolamento. I giovani militari non conoscono la lingua italiana, parlano una mescolanza di dialetti, dal piemontese al siciliano. Sopraggiunge Anna, che è stata compagna di studi dei due, ma non ha ottenuto il massimo dei voti perché donna, e ora forse potrebbe essere qualcosa di più di un’amica per Giulio.
Il soggetto è stato offerto dal romanzo di Carlo Patriarca “La sfida”, e benché la regia di Amelio sia sempre attenta, questa volta si rivela a tratti sottotono: a volte le sequenze appaiono appesantite e i tempi cinematografici non sempre rispettati. Al termine c’è un richiamo all’epidemia della “Spagnola” e le immagini con le mascherine e i camion militari utilizzati come trasporto funebre non possono che farci pensare a una pandemia purtroppo vicina a noi.