(Susanna Porrino)
L’educazione delle nuove generazioni è forse una delle questioni più delicate che la società contemporanea sta faticando ad affrontare. Alla scuola viene affidato l’enorme peso di una formazione che riesca ad educare l’individuo in ogni campo della propria esistenza: dalla sensibilità ambientale a quella intellettuale, dall’integrazione interculturale allo sviluppo di un pensiero individuale, dalla lotta alle discriminazioni alla discussione libera e tollerante, dalla capacità di muoversi nel panorama economico e lavorativo a quella di gestire le relazioni affettive e sessuali.
Eppure, se i risultati sembrano essere ancora disomogenei e barcollanti, ciò che è emerso in questi giorni è che tra i pochi valori che sono riusciti a radicarsi con salda fermezza nell’anima degli italiani c’è lo spirito di comunanza occasionato dalla passione calcistica: qualcosa che non si impara né si insegna sui banchi, ma si trasmette nel contesto chiuso ed essenziale della realtà intima e famigliare; e non come insieme di nozioni da conoscere o di abilità da dimostrare, ma come momento di vita quotidiana che finisce per sfumare nella costruzione della propria identità.
Se riuscissimo ad educare gli italiani a divenire uomini e cittadini nel modo in cui siamo riusciti ad educarli all’amore per il calcio e per la Nazionale, li libereremmo forse dal rischio dell’ipocrisia e dell’incertezza con cui oggi hanno a che fare. Nella confusione e nell’instabilità che troppo spesso regna nelle famiglie, anch’esse frutto di una cultura che incoraggia l’individualismo e non offre gli strumenti né i valori per costruire un equilibrio che non poggi esclusivamente sul singolo, i giovani si trovano a costruire la propria identità e la propria visione del mondo interfacciandosi o con una realtà scolastica che ormai si allinea in gran parte con le esigenze della “società della performance” o con una realtà virtuale e televisiva che diffonde in gran parte l’immagine di una realtà falsa o inverosimile.
“Non insegnate ai bambini / non divulgate illusioni sociali; / non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza; / ma se proprio volete / insegnategli il sogno di un’antica speranza”: così scriveva nel 2003 Giorgio Gaber nella sua canzone Non insegnate ai bambini. Ogni generazione ha dovuto imparare a modo proprio a crearsi un posto e un ruolo nella storia, e sarebbe forse eccessivo pretendere che siano le precedenti a prendersi carico di ogni problema del presente.
Ciò che manca non sono forse adulti in grado di dire ai giovani cosa fare per supplire ai problemi che essi saranno costretti ad affrontare, ma adulti in grado di coltivare ed alimentare in loro quell’antica speranza che è di fatto la capacità di guardare al mondo e alle persone intorno a sé con lo sguardo di chi sa coglierne una bellezza coniugata in mille differenti modi; famiglie in cui i ragazzi possano respirare e vivere in casa i sentimenti a cui la scuola tenta di educarli, rendendo il rispetto per l’altro una componente essenziale della quotidianità e il rispetto per il mondo una necessità imprescindibile, e non una moda un po’ bohémienne circoscritta a temi di cui avrebbero dovuto occuparsi solo le generazioni future.
La cultura e la società possono plasmare l’individuo e arginarne gli orientamenti negativi, ma se i valori trasmessi non vengono vissuti come spettatori fin da bambini rimangono un’utopia che finisce per alimentare la cultura del politically correct: ai ragazzi non manca la possibilità di accedere ad un panorama di valori vario e movimentato, ma un senso di stabilità in cui porre le proprie radici e su cui costruire se stessi.