(testo di renato scotti – fotografie di gabriele bisco, mirella nigra, laura tonello) – Dicembre dell’anno appena trascorso è stato il mese dell’Avvento, tempo liturgico di preparazione alla celebrazione della nascita di Gesù (1), la prima venuta (adventus) del Figlio di Dio che si fa uomo, e tempo privilegiato in cui la celebrazione dell’evento che ha diviso in due la storia, con un “prima” e un “dopo” ineludibili, favorisce nei cristiani l’accrescere dell’attesa della seconda venuta del Signore alla fine dei tempi, quando la storia della Salvezza finalmente giungerà a compimento.
Vediamo come le comunità di Villareggia, Mazzè, Tonengo, guidate dal Parroco Don Alberto Carlevato, hanno vissuto il tempo dell’Avvento e del Santo Natale.
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Durante le liturgie del tempo di Avvento, scandito dai quattro ceri progressivamente accesi ogni domenica – simbolo della Luce che vince le tenebre, ossia di Gesù che porta la Salvezza – e inframmezzate da eventi di carattere “profano” organizzati da varie associazioni benefiche (dal banco di beneficenza pro oratorio, ai mercatini di Natale, alla raccolta di giocattoli per il Centro di Aiuto alla Vita di Chivasso, alle raccolta fondi per la fondazione Telethon, e altro ancora), il pievano don Alberto Carlevato ha ripetutamente esortato i suoi parrocchiani a chiedere a Gesù Bambino il dono delle tre Virtù teologali, simboleggiate dai colori bianco (Fede), verde (Speranza) e rosso (Carità) dei fiori e degli addobbi che hanno abbellito la chiesa parrocchiale, incorniciando il bel presepe realizzato in presbiterio, e da altrettanti “pacchi regalo” posti ai pedi dell’albero di Natale allestito in prossimità del pulpito.
Particolare enfasi è stata data alla virtù della Speranza, alla quale è dedicato il Giubileo incominciato la sera del 24 dicembre con l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro.
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La quarta domenica di Avvento è stata anche la festa degli anniversari di matrimonio con il ricordo nella Santa Messa delle coppie di sposi che nel 2024 hanno festeggiato il loro anniversario multiplo di 5 anni.
Prendiamo esempio da loro, perché nonostante le difficoltà, gli inciampi e le cadute che umanamente a tutti possono accadere, hanno conservato la volontà di tenere fede alla promessa matrimoniale «nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia».
Un atto indubbiamente contro corrente e, oggi come oggi, eroico, in un mondo – ispirato da chi sappiamo esserne il principe per usurpazione – che in campo “amoroso” inganna, soprattutto i più giovani, svendendo il tutto-e-subito, il provvisorio, il possesso piuttosto che il dono totale di sé, come (falsa) via maestra alla felicità.
Ma, molto terra terra, se riconosciamo che abbiamo bisogno di essere salvati, se attendiamo il Salvatore e abbiamo fede in Lui, se il Salvatore ha elevato alla dignità di sacramento il matrimonio naturale, allora non c’è motivo ragionevole perché vi rinunci chi sente di essere chiamato alla vita coniugale (anche perché, per un cattolico, non c’è alternativa lecita al matrimonio sacramentale).
Tanto più che, insegnava Pio XI nell’enciclica Casti Connubii, «i fedeli che danno con animo sincero un tale consenso, aprono a sé il tesoro della grazia sacramentale, ove attingere le forze soprannaturali occorrenti ad adempiere le proprie parti ed i propri doveri fedelmente, santamente, con perseveranza fino alla morte», fermo restando che non si tratta di una grazia “passiva”, ma richiede invece una risposta attiva, perché «la grazia propria del matrimonio rimarrebbe in gran parte come talento inutile sepolto sotto terra qualora i coniugi non adoprassero le forze soprannaturali, trascurando di coltivare e far fruttificare i preziosi semi» che la grazia dona loro.
Sul matrimonio è fondata la famiglia. E la famiglia – ha ricordato don Alberto nella Santa Messa del 29 dicembre, festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe – è un elemento oggettivo di natura: al pari della legge naturale precede cronologicamente e ontologicamente qualunque legge e istituzione umana.
Dio ha voluto farsi uomo nella famiglia, santificandola, sottomettendosi in umanità, pur essendo vero Dio, ai suoi genitori – san Giuseppe, suo padre putativo, e sua madre Maria Santissima – i quali Gli hanno rivolto premurosa cura e attenzioni, consapevoli che quel figlio è Figlio di Dio e loro ne sono i custodi prescelti qui in terra.
La Santa Famiglia diventa così famiglia modello e piccola Chiesa domestica.
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Nei giorni della Novena del Santo Natale (2) e con l’avvicinarsi dell’apertura della Porta Santa giubilare, don Alberto ha proposto una serie di meditazioni, meritevoli di essere ruminate mentalmente nel corso delle giornate, incentrate sull’aprire la “porta” del nostro cuore (e, di conseguenza, della famiglia, della parrocchia, …) a Dio e al prossimo. Centrale, sicuramente di particolare rilievo, la terza meditazione che ha preso spunto dalle parole pronunciate dal card.
Dionigi Tettamanzi (1934 – 2017) nel suo intervento al Sinodo dei Vescovi del 1999 (Seconda Assemblea Speciale per l’Europa):
«Nell’Europa di oggi, la priorità non consiste tanto nel battezzare i convertiti, ma nel convertire i battezzati».
La priorità resta valida tuttora, ha osservato don Alberto, poiché, in generale, ad una abbondante richiesta di sacramenti non corrisponde altrettanto abbondante vita cristiana, mentre si moltiplicano – per usare con le parole dell’enciclica Dilexit nos di papa Franceso – «attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni e progetti mondani».
Non è questo lo spazio per affrontare la questione; ma se è vero che dai frutti si riconosce l’albero, bisognerebbe domandarsi, onestamente e criticamente, per quali ragioni le innovazioni ecclesiali degli ultimi decenni abbiano prodotto, in un crescendo spaventoso, “autunno” e addirittura “inverno” invece dell’auspicata “primavera”.
Durante la Novena, celebrata nelle Sante Messe feriali, è stato inoltre possibile ascoltare il canto delle sette Antifone Maggiori (dette anche Antifone “O” dell’Avvento per via dei vocativi iniziali: “O Sapienza …”, “O Adonai…”, ecc.) come versetti del canto al Vangelo. Si tratta di invocazioni a Gesù mediante i titoli messianici tramandati dalle profezie dell’Antico Testamento.
Prese in ordine inverso, le iniziali di questi titoli nella versione latina (Sapientia, Adonai, Radix Iesse, Clavis David, Oriens, Rex gentium, Emmanuel) formano l’acrostico ERO CRAS, che significa «[ci] sarò domani», «domani verrò».
È la risposta del Messia all’invocazione di ciascuna antifona: mentre cresce l’invocazione degli oranti della venuta del Signore, prende forma la certezza della Sua risposta.
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In più di un’occasione, e in particolare nella Santa Messa della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio del 1° gennaio, don Alberto ha ricordato che nel prepararci alla celebrazione del Santo Natale dobbiamo tenere ben presene che tutto ha avuto inizio con l’Incarnazione del Figlio di Dio nel grembo di Maria, celebrato dalla Chiesa il 25 marzo, nove mesi prima del Santo Natale, nella festa dell’Annunciazione del Signore. Il totale abbandono di Maria alla volontà di Dio, il suo «sì» all’Arcangelo Gabriele, il «sì» più grande e ricolmo di fede che creatura umana abbia mai proferito, fu possibile perché Maria è «piena di grazia». Lo ha ricordato anche mons. Lorenzo Piretto, arcivescovo emerito di Smirne, nella Santa Messa della festa dell’Immacolata Concezione.
Il «sì» di Maria fu anche totalmente e veramente libero perché la Madre di Dio non fu mai contaminata, neppure per un istante, dal peccato originale.
Questa verità è professata nella preghiera dell’Ave Maria, che riprende le parole dell’Arcangelo Gabriele, e la Chiesa cattolica ha sempre considerato questa dottrina come divinamente rivelata, sebbene la sua dichiarazione in forma dogmatica sia avvenuta solo l’8 dicembre 1854 con la Costituzione Apostolica Ineffabilis Deus di Pio IX:
«La dottrina, che sostiene che la Beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale, è stata rivelata da Dio e perciò si deve credere fermamente e inviolabilmente da tutti i fedeli».
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Al termine della Novena hanno avuto inizio le celebrazioni del Santo Natale con la Messa della notte.
Il Messia, Gesù bambino, finalmente è nato. Gli addobbi colorati, luminosi e gioiosi dei nostri presepi, delle nostre chiese, delle nostre case, delle nostre piazze, rimandano alla Sua vera Luce che ha illuminato e illumina il mondo, alla gioia dei pastori di Betlemme e dei Magi d’Oriente.
Auguriamoci che questa sia anche la nostra gioia!
Auguriamoci che le nostre luci non offuschino la vera Luce, che non prevalgano su di Essa quella pace, quella bontà, quella fratellanza – i “valori” del Natale, lo “spirito” del Natale mondano – frutto di buonismo e sentimentalismo, poggiate unicamente, e fragilmente, sul nostro zelo, sul nostro impegno, sulla nostra volontà, sulla nostra buona educazione.
Auguriamoci che il Santo Natale sia, in un certo qual modo, “scandaloso”, perché ci ricordi che abbiamo bisogno di essere salvati e Dio si è fatto uomo per questo (lo professiamo nel Credo: «per noi uomini e per la nostra salvezza [il Figlio di Dio] discese dal cielo, e per opera della Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo»).
Ma per essere salvati dobbiamo avere l’umiltà (facilissimo a dirsi, difficilissimo a farsi) di abbandonarci a Lui, di accogliere il dono del Suo amore, e di fare non la nostra, ma la Sua volontà, come ricordava il vescovo emerito di Ivrea, mons. Edoardo Cerrato, nell’omelia della festa di Santa Cecilia, commentando il canto degli Angeli a Betlemme («Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà») e soffermandosi sul significato di «buona volontà».
Una tipica raffigurazione di Gesù bambino nella mangiatoia è con entrambe le braccia allargate, una gamba leggermente più avanti dell’altra, il capo leggermente voltato verso uno dei due lati: in sostanza, la prefigurazione del Cristo in croce.
Per la nostra salvezza, Dio si è fatto uomo, ma per riscattarci Gesù ha preso su di sé, sul proprio corpo, i peccati di tutta l’umanità – del passato, del presente, del futuro – ed è stato calunniato, insultato, flagellato al punto da far saltare pelle a carne in tutto il Suo corpo, incoronato di spine, inchiodato alla Croce.
Ma il suo sacrificio è vano se non ci pentiamo sinceramente dei nostri peccati e li confessiamo.
Il Santo Natale non è “magico”, non è “incantato”. È la nascita di un Amore indicibile di fronte al quale dobbiamo augurarci di provare una gioia e una gratitudine talmente grandi da piangere lacrime di sincera conversione e sincero ringraziamento.
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Durante il tempo di Natale, le consuete feste e solennità stabilite dalla Chiesa hanno scandito il tempo liturgico fino all’Epifania: Santo Stefano, di cui è stato ricordato essere il primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Gesù e per diffondere il Vangelo, e che morì, lapidato, imitando Gesù in croce nel chiedere a Dio che di non imputare ai suoi assassini il peccato che avevano commesso; i Santi Innocenti, i martiri bambini di Betlemme e dei dintorni, dai due anni in giù, fatti trucidare da Erode nel suo scellerato e vano tentativo di uccidere Gesù per timore che diventasse re al suo posto; già si è detto della festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe; il canto del Te Deum per ringraziare il Signore dell’anno trascorso, al termine della Santa Messa nel giorno di San Silvestro; il canto del Veni Creator il 1° gennaio per invocare lo Spirito Santo sul nuovo anno; la memoria del Santissimo Nome di Gesù, il 3 gennaio, ricordando che il nome del Verbo incarnato, “Gesù”, significa “Salvatore” ed è un nome dato non dagli uomini, ma da Dio stesso tramite l’arcangelo Gabriele e l’angelo che apparve in sogno a san Giuseppe.
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Ed infine l’Epifania, la manifestazione del Signore ai Magi, ripercorsa con le parole delle omelie di don Alberto e di altri sacerdoti, che è stato possibile leggere o ascoltare, in diretta o in differita, a cavallo di questo giorno.
La Chiesa celebra tre epifanie della vita di Gesù: l’Epifania davanti ai Magi d’Oriente (manifestazione ai pagani), l’Epifania del Battesimo del Signore (manifestazione ai Giudei) e l’Epifania delle nozze di Cana (manifestazione ai suoi discepoli).
I Magi arrivano dall’Oriente.
Sono re.
Studiosi di astrologia, di filosofia, di scienza; studiano le scritture sacre, conoscono le profezie.
Sono re dotti e sapienti.
Ma sono anche umili, docili, hanno fede.
Riconoscono che la Verità non va cercata “in noi”, ma accolta “dal di fuori”: Dio, infatti, si rivela dall’esterno, si fa conoscere.
Quando nel cielo d’Oriente vedono comparire quella particolare stella, insolita, splendente, «credettero che non si doveva trascurare ciò che era annunciato con un segno tanto grande», memori anche «dell’antico oracolo di Balaam (…): “Un astro spunterà da Giacobbe, uno scettro sorgerà da Israele” [Nm 24, 17]» (papa san Leone Magno, Sermone XXXIV, 1-2).
Dunque, umilmente i Magi si incamminano e si lasciano guidare.
Quando a Gerusalemme la stella scompare dalla loro vista, si affrettano a domandare dove sia nato il Re dei Giudei perché vogliono raggiungerlo e adorarlo.
Re Erode, angosciato dal timore di perdere la propria regalità e il proprio potere terreno, chiama a sé i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo e si fa dire dove sarebbe dovuto nascere il Cristo (Mt 2, 1-4).
A differenza dei Magi, nessuno di loro si muoverà per andare incontro a Gesù e adorarlo.
Anzi, Erode, nell’inviare i Magi a Betlemme dopo averli convocati di nascosto, chiederà loro di fargli sapere dove esattamente si trova il Bambino, mentendo nell’affermare di volerlo anch’egli adorare (Mt 2, 7-8), poiché in verità lo vuole uccidere: «Quanto sarebbe stato facile e consequenziale che i capi degli Ebrei credessero quel che insegnavano! Invece è chiaro che essi, insieme a Erode, ebbero pensieri carnali e stimarono il regno di Cristo alla stessa stregua della potestà di questo mondo; cosicché gli uni sperarono un duce temporale e l’altro temette un competitore terreno. O Erode, sei turbato da un vano timore; inutilmente pensi di perseguitare il fanciullo, a te sospetto. La tua regione non può restringere il potere di Cristo, né il Signore si accontenta del minuscolo tuo regno. Colui che tu non vuoi far regnare in Giudea, regna dovunque; e tu stesso regneresti più felicemente, se ti sottomettessi al suo comando. Perché non fai con animo sincero ciò che prometti con dolosa falsità? Va’ con i Magi e venera con supplice adorazione il vero Re. Ma tu, fedele seguace dei ciechi Giudei, non imiti la fede delle genti e pieghi il tuo cuore a insidie crudeli: però non ucciderai colui che temi, né nuocerai a coloro che uccidi» (papa san Leone Magno, Sermone XXXIV, 3).
Lasciata Gerusalemme, la stella – che su Erode non aveva brillato – ricompare agli occhi dei Magi, e nel rivederla essi «gioirono di grandissima gioia» (Mt 2, 10 nell’efficace traduzione di S. Bertola e G. Destefani, tratta da un Messalino Romano del 1936, ed. Centro Liturgico Torino). La stella li guida fino a Gesù bambino, di fronte al quale i Magi – re, dotti, sapienti – si prostrano per adorarlo e offrirgli i doni che avevano portato (Mt 2, 11): oro, simbolo della regalità, perché Gesù è il Re dei Re; incenso, simbolo della divinità e del sacerdozio, perché Gesù è Dio ed è il Sommo Sacerdote perfetto che comunica il suo sacerdozio agli uomini consacrati (il sacerdozio comune, di tutti i fedeli, chiamati ad assoggettare tutta la loro vita a Gesù Cristo, è possibile solo per mezzo del sacerdozio ministeriale, dei sacerdoti ordinati, che danno la grazia, santificano, guidano nella verità); mirra, usata nel culto dei morti, per ricordare l’umanità di Gesù e che la Sua regalità è dalla Croce, unica salvezza e unica speranza (“Ave crux, spes unica”, motto latino originato dalla sesta stanza del Vexilla Regis, antico inno alla Vera Croce risalente al VI secolo).
Dopo aver incontrato Gesù, avvertiti in sogno dell’intento malvagio di re Erode, i Magi fanno ritorno ai loro paesi “seguendo un’altra via”: questa espressione simboleggia anche il proposito, che ciascuno dovrebbe fare proprio, di cambiamento di vita, di conversione, dopo l’incontro con Gesù.
L’atteggiamento dei Magi, l’apertura delle loro menti e dei loro cuori di fronte alla manifestazione di Dio, è identica a quella dei pastori – ritenuti impuri, peccatori, emarginati e disprezzati dai farisei – che per primi ricevettero il lieto annuncio della nascita di Gesù. Certo, agli occhi umani i doni dei Magi avevano valore ben superiora a quelli dei poveri pastori, ma non così agli occhi del Bambino di Betlemme, agli occhi di Dio, come insegnerà trent’anni più tardi Gesù ai suoi discepoli dopo aver osservato la vedova che al tempio di Gerusalemme offrì tutto quello che aveva («In verità vi dico, questa povera vedova ha dato più di tutti quelli che … hanno dato dal loro superfluo», Mc 12, 43-44).
«Dobbiamo decidere se stare coi Magi o con Erode. Quel che Erode ha fatto era la conseguenza del terrore che Cristo regnasse al suo posto. E così ha perso la regalità. Ma è esattamente quello che succede quando l’uomo, nel suo orgoglio, non vuole mettersi in ginocchio, domandare perdono dei propri peccati, ricevere l’assoluzione, ripartire con la Grazia: perché ha paura di perdere qualcosa. Quando uno fa così, quando resiste, sta con Erode. Erode non vince, Cristo ha già vinto. Ma occorre essere coscienti che Erode, pur non vincendo, resta potente nel tempo col suo pericolo di seduzione. E sono tanti i cristiani che danno ragione a Erode, perché non vogliono che Cristo regni. Quando verrete alla fine della Messa a venerare la statua di Gesù bambino, a baciare Gesù Bambino, che non sia solo un atto sentimentale; sia, piuttosto, riconoscere la sua regalità: è questo l’importante».
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~ Note ~
(1) Le tracce più antiche di un tempo liturgico dedicato alla preparazione al Natale si rinvengono a metà circa del IV secolo nelle chiese della Gallia e delle Spagna. L’Avvento iniziava il giorno dopo San Martino di Tours (11 novembre, data particolarmente cara a Villareggia essendo Martino il santo patrono del paese) e aveva durata di sei settimane. Aveva carattere prettamente penitenziale (si praticava, infatti, il digiuno in vista del ritorno di Cristo), ma enfasi via via crescente all’Incarnazione del Verbo (“Verbum caro factum est”, Gv 1,14) venne data dalla chiesa di Roma a partire dal V secolo. Papa san Gregorio Magno (540ca – 604, eletto nel 590) fissò a quattro il numero delle Domeniche di Avvento (nel rito ambrosiano restano sei, a partire dalla prima domenica dopo il giorno di San Martino) e nel 1570 san Pio V (1504 –1572, eletto nel 1566) estese per primo all’intera Chiesa latina la liturgia dell’Avvento.
(2) La Novena del Santo Natale (nella forma che possiamo definire tradizionale, purtroppo un po’ relegata alla memoria e sostituita, in tutto o in parte, da sue varianti locali talvolta un po’ impoverite) fu eseguita per la prima volta in una casa di missionari vincenziani di Torino nel Natale del 1720, nella chiesa dell’Immacolata Concezione. A favorirne la devozione e la diffusione fu Gabriella Marolles delle Lanze, marchesa di Caluso. Rimasta vedova, e venuta ad abitare nei pressi della casa dei vincenziani di Torino, scelse come direttore spirituale il superiore, padre Domenico Amosso, sotto la cui guida acquistò una profonda devozione verso il mistero della Incarnazione e del Natale del Signore. A padre Carlo Antonio Vacchetta (1665-1747) è attribuita la redazione dei testi e della musica: egli, per assecondare la devozione della Marchesa, compose una nuova Novena cantata, composta di Profezie, di Salmi ed Inno a modo di Vespro. Grazie alle missioni popolari portate avanti dai vincenziani, la Novena fu diffusa in Piemonte, e da qui in tutta Italia. La diffusione fu facilitata dal fascino del suo canto e dalla semplicità della melodia. La Marchesa ne fu così contenta che fissò un lascito di cinquemila lire e nelle sue disposizioni testamentarie stabilì che si celebrasse «ogni anno et in perpetuo la suddetta Novena».