(elisa moro) – “Gaudeámus omnes in Dómino” (godiamo tutti nel Signore), così la liturgia canta nell’antifona d’ingresso in questa Solennità, la Festa di tutti i Santi, invitando a condividerne il gaudio celeste, ad assaporarne la gioia dell’intera Chiesa, trionfante e militante, verso il Suo Sposo, il Cristo: “Madre de’ Santi, immagine della città superna; …Tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi,…campo di quei che sperano; Chiesa del Dio vivente” (A. Manzoni, La Pentecoste).
Lo sguardo è rivolto ai Santi, testimoni che, pur con le loro diversità culturali, temporali e di personalità, si sono lasciati trasformare e plasmare dall’Amore misericordioso di Colui che ha creato l’uomo a Sua immagine, “per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra in Paradiso” (Catechismo Chiesa Cattolica).
In essi il cuore si apre speranzoso alla Meta che attende ogni uomo; in essi si scorge la Santa Gerusalemme; in essi si contempla il Volto cercato e sospirato, quello del Cristo, per il quale nella Santa Messa si recita “Tu solo il Santo” e si giunge, con Sant’Agostino, ad affermare: “viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Conf. 10, 29).
Nel brano matteano delle Beatitudini, sintesi autorevole della novità dell’annuncio cristiano, si scorge, secondo la logica del mondo, un paradosso: “infatti, mentre tutti chiamano felici coloro che si divertono e godono la vita, e chiamano disgraziati coloro che sono nell’afflizione e nel dolore, Gesù dichiara che costoro sono beati” (Crisostomo, XV, 2).
In questo compendio di beatitudine vi è l’autentica imitazione, la sequela del Cristo, “maestro e modello divino di ogni perfezione” (Lumen Gentium, 40).
La via perfetta verso la santità è lo stesso Cristo, mite e obbediente fino alla morte di Croce, incarnazione delle stesse Beatitudini, delle incomprensioni, delle sofferenze e delle povertà vissute, e i santi, nell’imitarlo, come ricorda San Giovanni Paolo II “hanno gustato già quaggiù la gioia profonda della comunione con Cristo” (Omelia 01/11/2000).
La beatitudine “funziona” solo per chi ha fede: per prendere a prestito un’immagine dalla teologia della rivelazione, potremmo dire che servono gli occhi del credere autenticamente.
Solo grazie alla fede, scriveva all’inizio del Novecento un giovane teologo gesuita francese (Pierre Rousselot), c’è la possibilità di vedere in modo diverso la realtà (che potrebbe anche non cambiare, perché il povero, nelle beatitudini, non diventa ricco, anche se “possiede” il Regno!).
Essa rende capaci gli occhi di cogliere ciò che altrimenti rimane sotto la superficie.
Senza la grazia si vede il fallimento, la fame, la disperazione e la persecuzione: con la fede si può scoprire in queste situazioni, nonostante tutto, la presenza di Dio e il Regno.
Occorre guardare ai Santi, ma non certo perché essi abbiano “bisogno dei nostri onori o del nostro culto” (San Bernardo, Disc. 2; Opera omnia, ed. Cisterc. 5); anzi, bisogna fissare lo sguardo su di loro, desiderando di raggiungerli ed abbracciarli nella Meta finale, come insegna San Filippo Neri: “non è superbia desiderare di passare in santità qualsivoglia santo, perché il desiderare d’esser santo è desiderio di voler amare ed onorare Dio sopra tutte le cose”.