Paradossalmente, ci pare, per difendere e sostenere il marchio italiano dei nostri prodotti, la qualità, la produttività, la trasparenza, la garanzia del rispetto delle leggi, anche quelle sul lavoro e la tutela dei lavoratori, si usa una espressione in inglese: Made in Italy. L’esempio viene dal Ministero che proprio così si chiama. Come se nel nostro dizionario, per sottolineare l’italianità di quanto inventiamo, produciamo e commercializziamo, non ci fossero altre parole italiane da usare.
Per tenere lontani i prodotti del resto del mondo, in particolare quelli più concorrenziali al Made in Italy – cosa per altro anacronistica davanti alla globalizzazione galoppante, se non adottando una sorta di protezionismo dal possibile effetto boomerang –, si racconta di prodotti di dubbia qualità e dove scarseggia o manca la tutela dei lavoratori.
Quante produzioni italiane sono state decentralizzate in Paesi dove il costo del lavoro è più basso (e con esso presumibilmente tutta una serie di tutele)? E quanta fatica in Europa per (non) arrivare a trovare una base salariale comune a tutti i Paesi onde evitare le fughe, questa volta non dei cervelli, ma delle imprese alla ricerca di dove il lavoratore costa meno e i guadagni si profilano più elevati?
Lo sfruttamento dei lavoratori, quello duro e puro, senza limiti di coscienza umana ancor prima che professionale, è una piaga: e non è necessario guardare fuori dai nostri confini per trovarla. Ce l’abbiamo in casa: “è l’Italia peggiore”, l’ha identificata il presidente del Consiglio. È ben organizzata, con numeri elevati di “schiavitù moderna”, di cui i tragici fatti recenti sono solo la punta di un iceberg che ogni tanto emerge, e che sempre si respinge sott’acqua perché conviene a troppi, e forse anche a noi quando tra prezzo e qualità, italianità e mondialità, soddisfiamo esigenze diventate capricci, senza i quali non pare più possibile vivere.
Generalizzare non va mai bene, ovvio. C’è anche una grande Italia, migliore: e anch’essa si erge dietro allo slogan d’italianità, che però si pronuncia, paradossalmente, in inglese!