“La mia generazione ha perso” cantava Gaber. Ideali delusi e sogni infranti: nella tristezza di quella generazione c’era poco spazio per nuovi orizzonti, come un fiore appassito che soffoca il terreno.
Le note di quella musica ci suonano sterili, eccetto rari casi preziosi. Ma allora, cosa impariamo dai maestri? Il Signor G implorava “non insegnate ai bambini la vostra morale, è così stanca e malata, potrebbe far male”.
Quei bambini di allora siamo noi oggi, cresciuti vigorosi e testardi. Rinneghiamo il passato e pensiamo di bastare a noi stessi. Con la sola nostra forza crediamo di salvarci dall’incapacità di riconoscerci per diventare qualcuno.
Il desiderio di essere diverso ci eguaglia tutti. Ci fotocopiamo: il diverso è il nuovo stereotipo. “Tutti nasciamo originali, molti muoiono come fotocopie” diceva il beato Carlo Acutis. Questa tendenza è stata presente in quello che, de facto, è lo specchio della nostra società: il Festival di Sanremo. L’immenso Ariston, il luogo dell’anima dove il passato riviveva i bei tempi resistendo alle intemperie, e dove il futuro non era ammesso.
Negli ultimi anni lo spazio per le nuove generazioni è cresciuto, altrimenti il festival sarebbe morto, sepolto dalla sua stessa pesantezza. Con questa ventata di novità non sono mancate le critiche. La vecchia guardia ha accusato i giovani di essere superficiali. E noi troppe volte abbiamo dato loro ragione, con artisti dai numeri impressionanti, anche grazie a piattaforme streaming e follower, ma con contenuti effimeri. Che piacciono… tantissimo, ma per poco tempo.
E poco si salva in questo marasma che appaga le masse, ma le “pecore nere” ancora esistono. E qualcuna l’abbiamo intravista. Chi ha cantato dei dolori della guerra, del martirio dei bambini, chi dell’idea di casa comune…
E chi, a 23 anni, si fa chiamare “Alfa”, canta “Vai” e rendiconta la sua semplicità: “Sono una persona normale, per me la normalità è la mia forza. Voglio essere ciò che scrivo, non ciò che indosso”. Ma non è tutto: “C’è tanto egocentrismo. La mia generazione ha bisogno di riappropriarsi di vitalità e di amore verso gli altri anziché di amor proprio”. Non più “gabbiani ipotetici” di Gaber, ma aquile ormai in volo.
E noi giovani, rivoluzionari o vecchi dentro come me, abbiamo qualcosa da imparare.