In realtà non c’è nulla da ridere. Anzi. Qualche ombra si allunga sul futuro. Alla Speranza del Giubileo bisogna aggrapparsi. “Ri” sta per riarmo e “Di” come disarmo, che assumono una rilevanza crescente, attualissima, con valutazioni contrastanti che riflettono le tensioni del nostro tempo.

Riarmare e disarmare si collocano nel cuore di una delle più grandi contraddizioni della politica e della società: da un lato, la necessità di sicurezza e deterrenza militare, dall’altro l’urgenza di promuovere la pace e ridurre la proliferazione delle armi. Le nazioni sono a un bivio: investire sempre più in armi e difesa, con il rischio di nuove escalation, o percorrere la difficile strada del disarmo, che richiede diplomazia, fiducia reciproca e un cambiamento nella percezione della sicurezza globale?

Il dilemma è di spessore. Riarmare vuol dire potenziare la propria capacità militare pensando alla sicurezza nazionale, alla deterrenza e all’economia di un settore che genera posti di lavoro. Ma dalle conseguenze pericolose: la corsa agli armamenti di chi si sente minacciato dalla potenza altrui, conflitti più probabili e questioni morali sul destino delle armi.

Meno armi significa minori possibilità di escalation violenta, fondi usati per sanità, istruzione e clima, più cooperazione internazionale e riduzione delle tensioni geopolitiche. Con, però, il rischio di vulnerabilità e difficoltà nel far rispettare gli accordi.

Papa Francesco, in una lettera al direttore del Corriere della Sera, ha espresso con forza la necessità di promuovere la pace attraverso un uso responsabile delle parole: “dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità“, evidenziando come la guerra “non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti“.

Siamo davanti a una scelta cruciale per il futuro: anche se non sembra, l’opinione pubblica (cioè noi) gioca un ruolo fondamentale in questo dibattito: sostenere la pace significa anche vigilare affinché le scelte politiche non alimentino guerre. La domanda è: siamo davvero pronti a farlo?