(Filippo Ciantia)
Le immagini in arrivo dalla città di Wuhan – che ritraggono medici e infermieri con maschera facciale filtrante, tuta resistente a strappi e ad alto contenimento biologico, guanti e visiera protettiva… – mi hanno profondamente colpito ed emozionato.
Ho ricordato la morte, nel marzo 2003, del dottor Carlo Urbani causata dal suo prodigarsi per curare i suoi malati e scoprire la causa della epidemia di SARS.
Alla fine del 2000, un’epidemia di Ebola colpì l’Uganda. Grazie all’eroico sacrificio del dottor Matthew Lukwiya che, dedicandosi alla cura dei malati, s’infettò e perse la vita insieme ad altri diciassette operatori sanitari, fu possibile contenere una diffusione della malattia emorragica che avrebbe potuto avere effetti ben più devastanti.
L’Uganda fu il primo paese dell’Africa Sub-sahariana a riconoscere lealmente nel 1986 la gravità dell’epidemia di AIDS, contrastandola con successo. Tra gli innumerevoli sconosciuti personaggi che hanno contribuito alla “success story” ugandese, ricordo Elly Ongee, che dopo la morte della moglie, fondò un gruppo di ascolto e accoglienza per malati, come lui, di AIDS. Quando la mia giovane segretaria Rose Akumu scoprì di essere sieropositiva, decise di dedicarsi alle persone come lei affette dalla malattia, contro la quale allora non esisteva terapia. Il suo ufficio diventò luogo d’incontro e dialogo, di sostegno e incoraggiamento per chiunque fosse interessato e avesse bisogno di un aiuto.
Che cosa lega Lukwiya, Akumu, Ongee, Carlo Urbani e gli ignoti infermieri di Wuhan, che tentano di fermare il contagio?
Non sono fuggiti davanti alla sofferenza e al pericolo. Sono rimasti al fianco dei sofferenti rischiando la vita per un bene più grande. Urbani ha contribuito alla scoperta della SARS, permettendo poi di salvare molte vite. Lukwiya e i suoi compagni hanno affrontato la più grande epidemia di Ebola e ottenuto la più bassa percentuale di decessi nella storia di questa malattia. Akumu ed Elly ci hanno insegnato che i malati valgono di più della loro diagnosi e della prognosi, e che possono essere protagonisti della loro malattia e costruire una rete di solidarietà che anche oggi si prende cura di migliaia di malati.
“Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano diventasse eroico” (Giovanni Paolo II)