Don Luca Pastore, classe 1981, prete dal 2010, è parroco di Quincinetto, Tavagnasco, Quassolo dal settembre 2021 e fa parte della Cappellania dell’Ospedale di Ivrea; insieme ad altri sacerdoti e diaconi visita e conforta i ricoverati e il personale sanitario. Più volte su questo giornale abbiamo raccontato il suo(e loro) servizio durante i terribili mesi della pandemia. Ora che le cose stanno andando meglio, raccogliamo la sua testimonianza che riflette tutto il lavoro che i “cappellani” dell’Ospedale continuano a fare.
Don Luca, come ricordi l’esperienza pastorale durante le fasi acute del Covid nelle corsie dell’ospedale?
È stato un periodo difficile per me come per tutti; personale sanitario, ammalati, parenti che non potevano visitare i ricoverati. Un periodo non facile dal quale stiamo uscendo anche se queste cose non si dimenticano.
È stato un periodo che ci ha visti tutti in prima linea, impegnati per il bene di tutti, di chi voleva salvare la propria vita dal Covid, chi lavorava per loro e anche noi, della Cappellania, al servizio per l’assistenza religiosa e una presenza che fosse di conforto e di speranza per tutti.
Che cosa facevate, cosa dicevate in quei giorni ai malati, al personale sanitario…?
Dicevamo di non sentirsi soli, che la Chiesa è con voi, combatte con voi, vi è vicina. Abbiamo adottato una “pastorale di presenza” avanti alla solitudine di quei momenti per i malati, i loro famigliari e davanti alla preoccupazione e alle fatiche del personale sanitario.
È stata una Chiesa in prima linea per testimoniare che in una situazione difficilissima come quella il Signore è sempre stato presente.
C’era il desiderio di sentir parlare di Gesù?
Sì. Tanto desiderio di sentire parlare di Gesù; la paura era tanta e abbiamo toccato con mano il senso di precarietà.
Ci siamo fatti tante domande difficili in quei momenti, che per me è stato anche un modo per ravvivare la mia vocazione al sacerdozio, perché la gente in quei momenti ti provoca, ti chiede, ha fame della Parola di Dio e sente proprio l’esigenza di risposta alle grandi domande che ci facciamo tutti nelnostro cuore.
La parola di conforto penso che sia stata la migliore medicina per il cuore per tanti che soffrivano.
Ho toccato con mano le croci, non solo degli ammalati ma anche del personale sanitario così sollecitato da tanto e difficile lavoro e che oggi ci vede con occhi nuovi, come parte integrante di un servizio importante reso alla persona.
La presenza dell’assistente religioso in ospedale è fondamentale; durante il Covid c’eravamo come diocesi, come comunità, come cappellani.
Quel servizio in quel periodo come ti aiuta oggi ad essere parroco?
Mi aiuta ad esserlo di più e meglio.
Cappellano e parroco non sono due esperienze slegate, sono due polmoni dello stesso servizio alla Chiesa e alla comunità che cerco di coinvolgere sulle difficoltà che io sperimento a contatto con i malati ed è bello che mi aiutino anche loro a trovare le soluzioni.
E questa esperienza della mia comunità la riporto nel servizio in ospedale, facendo gustare e vedere un volto di Chiesa che c’è.
D’altra parte i ricoverati e il personale sanitario arrivano dalle nostre parrocchie e hanno bisogno di sentirsi partecipi e parte integrante sia di quella situazione attuale di sofferenza e di lavoro ma anche della loro comunità parrocchiale.
È una crescita da ambo le parti, che fa bene a me, alla mia comunità e anche al personale a cui riporto la mia esperienza di prete, di parroco e di cappellano.
Non dobbiamo dimenticare che non siamo maghi, o factotum, o super esperti del settore, ma che siamo al servizio per portare un’esperienza di Chiesa e una presenza sanificante del Signore in un momento difficile della vita del malato e in un ambiente di lavoro sempre delicato e sensibile.
In parrocchia come in ospedale crescono e possono crescere esperienze di comunità che rendono sempre più vero e coinvolgente
la verità del Vangelo.
c.m.z.
Redazione Web