Con la terza guerra mondiale a pezzettini (per usare una abituale espressione di Papa Francesco) che avanza da Kiev a Gaza all’Africa, con l’Europa che ci sorveglia sul PNRR, sul Mes, sul Patto di stabilità, con il bilancio dello Stato cambiato dieci volte per le richieste di Salvini e Tajani, con la crescita economica quasi ferma, con l’inflazione non domata, con il salario minimo negato, Giorgia Meloni segue la via dell’ex premier Matteo Renzi nel 2016: la scorciatoia delle riforme istituzionali.
Ma oggi come ieri i nodi veri sono costituiti dai contrasti politici nella maggioranza, irrisolti. Renzi, segretario del Pd e premier, aveva di fronte l’opposizione interna dei Ds di D’Alema, che pensò (erroneamente) di risolvere con il referendum popolare. La Meloni, segretaria di FdI e premier, punta al “premierato elettivo” per mettere ai margini la Lega e Forza Italia (rafforzata dalla “grinta” di Marina Berlusconi). Ci attendono due anni di campagna elettorale, perché al Senato non c’è la maggioranza qualificata e occorrerà aspettare un nuovo referendum. Ma è questa la vera priorità del Paese?
Peraltro la proposta del premierato offusca “de facto” il ruolo del Quirinale, che oggi, con la saggia e imparziale guida di Sergio Mattarella, è la vera garanzia di stabilità delle Istituzioni democratiche. Il premier eletto svuota le prerogative del Colle e ancor più la scelta di elezioni anticipate in caso di crisi, con il Parlamento ridotto ad un ruolo notarile.
È altrettanto preoccupante la filosofia politica della proposta: divisione netta e irriducibile tra destra e sinistra, come negli Stati Uniti o in Francia, come se la vicenda Trump o le barricate francesi non avessero nulla da insegnare. Salvini ha commentato: “basta governi tecnici”, dimenticando che la solidarietà nazionale ha salvato il Paese in molte fasi, dal varo della Costituzione repubblicana al “compromesso storico” Moro-Berlinguer che sconfisse il terrorismo, rosso e nero, dalla riscoperta della “questione sociale” con Fanfani e Nenni ai governi di “salute pubblica” di Ciampi, Monti, Draghi. Perché in politica occorre essere sempre “nemici da battere” e mai avversari corretti al servizio delle Istituzioni?
La Meloni non può neppure attribuire le difficoltà alle opposizioni, mai così divise; e anche sul conflitto Israele-Gaza i partiti sono riusciti a dividersi tra filo-israeliani e filo-palestinesi, dimenticando che il vero problema è di ricucire un dialogo, superando la fase dell’odio tra due popoli. Lo scontro italiano tra due squadre opposte non giova né alla pace né all’immagine mondiale del Paese.
Sarebbe opportuno concentrarsi sui nodi aperti e affrontarli; tra questi il rapporto con l’Europa che attende da Roma il varo del Mes (Meccanismo europeo di solidarietà); siamo l’unico Paese (su 27) che blocca la riforma per l’opposizione intransigente di Salvini, con il rischio, di rimando, di gravi ritardi nei finanziamenti europei del PNRR e di un rinvio della moratoria sul tetto del deficit statale. La premier imponga alla Lega la disciplina di coalizione, come a Forza Italia, sempre berlusconiana, ricordi che la Rai e la piccola emittenza radio-televisiva non possono essere penalizzate per favorire mega-incassi pubblicitari al Biscione.
Soprattutto la presidente del Consiglio deve scegliere tra la leadership dell’Esecutivo e la guida del partito, tra il “bene comune” e il primato di FdI. Nel dopoguerra Alcide De Gasperi, il ricostruttore di una società piegata dalla dittatura fascista, scelse la governabilità scontentando chi puntava sull’egemonia Dc; pagò questo coraggio con l’esilio in Trentino, ma la storia riconobbe la sua “profezia”. Aldo Moro pagò addirittura con la vita l’opzione di abbattere i muri della “guerra fredda” est-ovest, rilanciando il dialogo tra diversi dopo decenni di contrapposizioni. Ma ora dove ci porta la linea dello scontro?
Anche per l’opposizione si pone l’esigenza della scelta tra partito e istituzioni: il vocabolo preferito non può essere sempre il “no”; occorre partecipare, senza confusioni di ruolo, alla ricerca delle soluzioni migliori.
L’opinione pubblica, che continua a dare segnali inquietanti di disaffezione, con una crescente fuga dalle urne, si attende la fine della campagna elettorale ed un pieno funzionamento delle Camere, che non possono essere ridotte a scegliere tra un sì e un no. A cominciare dal bilancio dello Stato, che non può essere varato a occhi chiusi per non turbare la fragile tregua tra la premier e i suoi due vice.