Torniamo a parlare di giovani. Lo stiamo facendo da diverse angolazioni, prendendo spunto da una serie di fatti che ci lasciano sempre più basiti. Si sentono le distanze generazionali quando leggiamo ciò che accade, ci interroghiamo e ci sembra che il mondo stia cambiando verso qualcosa che fatichiamo anche solo a concepire come plausibile. L’ultimo fatto di cronaca riguarda un ragazzo minorenne che ha ucciso una sua coetanea per (probabili) futili motivi.
Ogni qualvolta accade una cosa del genere facciamo riferimento sempre alla “crisi dei valori”, ai cambiamenti della società, alla povertà educativa, alla necessità di offrire opportunità diversificate di crescita ai giovani… Tutte analisi corrette, ma che sembrano non bastare a darci conto di quanto accaduto. Proviamo a chiederci perché assistiamo ad eventi in cui la spirale di violenza sembra essere l’unica risposta.
Un’azione aggressiva, tale da portare alla distruzione dell’altro, contempla una serie di elementi e di dimensioni che si muovono su livelli diversi. Se le teorie e le definizioni dell’azione aggressiva sono molte, ad oggi è possibile riconoscerne come acclarati alcuni punti.
Nei soggetti che le compiono, alle fragilità neurobiologiche e neurofisiologiche si accompagnano distorsioni cognitive su come si debbano risolvere alcuni conflitti. Il peso dell’ambiente – di come questo modella le alternative di risposta che un individuo ha, di fronte ad una condizione che gli suscita rabbia e frustrazione o di fronte al desiderio di raggiungere il dominio sull’altro o di ottenere un vantaggio personale a scapito dell’altro – è riconosciuto come più importante dei fattori genetici interni all’individuo. Le emozioni che sottostanno alla risposta aggressiva e la risposta aggressiva stessa fanno parte della variabilità del comportamento normale e, nell’uomo, questa condotta viene messa in atto nel caso in cui l’individuo si senta minacciato nella sua integrità fisica o psichica, o entrambe.
Di fronte ad una condotta che porta alla distruzione della controparte, alla fragilità biofisiologica e all’ambiente dobbiamo aggiungere anche la presenza di stimoli ed elementi che rimandano a situazioni aggressive. La presenza di armi o di oggetti atti ad offendere, può aumentare l’attivazione (“arousal”, si chiama in neuropsicologia) della risposta aggressiva, che può portare all’annullamento dell’altro.
A ciò si può aggiungere la condizione di “stato affettivo negativo”: se la persona già in condizione di attivazione rabbiosa si sente aggredita, con più facilità tenderà a liberarsi dell’altro attraverso la violenza. Se tutto ciò non fosse già sufficiente, possiamo aggiungere quegli elementi che attengono alle regole del gruppo, alle norme a cui un individuo ritiene di aderire, che spesso fanno si che l’individuo stesso si riconosca solo in parte come responsabile di un comportamento volto a ledere un altro. Arrivare ad uccidere qualcuno non è un gioco, non è un’azione semplice, non avviene per caso. Uccidere qualcuno è una condizione estrema che contempla diverse dimensioni che devono manifestarsi in sequenza e di cui, spesso, anche chi compie l’azione violenta, non si rende perfettamente conto di averle messe in atto.
Banalizzare un comportamento così complesso riduce la possibilità che abbiamo di poter intervenire e prevenire affinché, quei fattori intrinseci all’individuo, possano ridursi e limitarsi grazie all’apprendimento di modalità di autocontrollo nelle risposte emozionali e comportamentali, utili a far gestire emozioni spiacevoli in modalità non lesive per se stessi, per le cose e per gli altri; favorendo l’incremento della resilienza che permette alla persona di ricorrere a strategie più razionali di gestione del conflitto; favorendo una cultura della prosocialità e riconoscendo se stessi e l’altro sempre come portatori di grandi valori personali e sociali.