(Michele Curnis)
Fu un professore nativo di Barbania il canavesano che dedicò tutta la sua vita alla lettura e alla composizione poetica ispirata a Dante. Non uno studioso, un accademico o un traduttore, bensì un poeta: questa la caratura che distingue Giovanni Bossetti (14 Maggio 1827 – 4 Aprile 1899) da tutte le altre personalità del Canavese che si confrontarono con Dante.
La centralità del poeta fiorentino nell’opera di Bossetti è evidente sin dal titolo della sua più importante raccolta, Il trionfo di Dante e d’Italia, pubblicata per la prima volta a Torino nel 1898. Bossetti trascorse quasi tutta la vita professionale tra Canavese e Vercellese: dopo aver compiuto gli studi superiori a Cuorgnè (grammatica e retorica) e Ivrea (filosofia), vinse un posto gratuito al Collegio delle Province di Torino per il corso di Belle lettere, diventando professore di retorica nel 1853, appena conseguita la laurea.
Insegnò vari anni tra Masserano, Lanzo, Pinerolo e Chieri; il 16 Ottobre 1860 un decreto del ministro Terenzio Mamiani lo assegnava al Liceo di Ivrea, ma l’anno dopo lo promuoveva alla cattedra di letteratura italiana del Liceo di Vercelli. Dopo vent’anni esatti, il 1. Ottobre 1881 fu di nuovo trasferito al Liceo di Ivrea – nel frattempo intitolato a Carlo Botta – dove insegnò per altri dieci anni, fino al 1891, quando ottenne di essere collocato a riposo.
La composita opera poetica di Bossetti avrebbe rischiato la dispersione e l’oblio, se non fosse intervenuto un altro importante scrittore e pedagogo canavesano, Bernardo Chiara (Vauda di Front, 1863 – Torino, 1942), a curarne un’edizione complessiva, che vide la luce a Ivrea nel 1921, ovviamente in occasione del centenario dantesco. Fu il benemerito editore Francesco Viassone a pubblicarla, appunto con il titolo generale Il trionfo di Dante e d’Italia. Canzoniere di G.B., in due volumi dalla veste tipografica sobria ma, come sempre, accurata.
Tra canzoni, satire, odi, inni, saggi di traduzione dai classici latini e perfino una tragedia di ambientazione medioevale (Libania), attirano l’attenzione all’interno del I volume le Faville della gran fiamma, una raccolta giovanile di cinquanta sonetti, tutti ispirati a Dante e ai personaggi principali della Commedia: in molti componimenti Bossetti si rivolge direttamente a Dante per esaltarlo, per consolarlo del dolore sofferto negli anni dell’esilio, per sottrarlo alle accuse dei detrattori, per additargli le trovate senza fondamento di alcuni dei suoi commentatori.
Il titolo della collezione di sonetti fa perno su una parola umile (le faville), cui compete rapportarsi al capolavoro inarrivabile (la gran fiamma); è però la stessa umiltà (in termini retorici) già professata da Dante: «Poca favilla gran fiamma seconda», si legge in un momento tanto impegnativo come il proemio al Paradiso (I 33). Ancora nel Novecento questa metafora dalle fattezze proverbiali (così parafrasabile: “a una piccola scintilla segue un grande incendio”) si intendeva per lo più riferita ai frutti poetici ragguardevoli (gran fiamma) che il modello prototipico di Dante (poca favilla) avrebbe destato.
La silloge è interessante, non tanto per i soggetti scelti, che risultano assai prevedibili, quanto per la tecnica poetica, consistente in un intarsio di nessi, espressioni e occorrenze rimiche provenienti dalla Commedia. Detto con una sola parola, la poesia di Bossetti è un centone, ossia una minuziosa ripresa di segmenti poetici (singoli elementi lessicali, sintagmi, spesso mezzi versi), assemblati in modo da formare un nuovo testo. Non a caso, per condurre questa operazione, Bossetti scelse il sonetto, la struttura metrica formata da quattordici versi endecasillabi, raggruppati in due quartine e due terzine con una distribuzione delle rime variabile: tutte caratteristiche che facilitano la ripresa di tessere testuali e rime dalla Commedia. Se poi si considera che anche i soggetti derivano dal poema, s’intende come la ricostruzione e le combinazioni risultino alquanto agevoli.
L’intenzione più evidente della raccolta è di rendere omaggio al genio poetico di Dante, facendo rivivere gli affetti suscitati dalle vicende dei suoi personaggi; per questo il poeta canavesano dedica sonetti a Ciacco, Farinata degli Uberti, Capaneo, il Minotauro, Venèdico Caccianemico, Guido da Montefeltro, Catone, Casella, Ghino di Tacco, e ovviamente agli stessi Dante e Beatrice. L’attenzione al mito, al patetismo e alla tragedia delle singole biografie sembra distogliere Bossetti dai personaggi del Paradiso, ai quali non è dedicato neppure un sonetto.
Altra assenza poco spiegabile è quella delle figure femminili: con eccezione di Beatrice, Bossetti non sembra toccato dalle vicende umane e dolorose di Francesca, di Pia de’ Tolomei, di Piccarda Donati. Comunque, l’elemento di cui più si sente la mancanza nell’articolata corona di sonetti è il sentimento della storia, vale a dire la percezione critica della distanza dell’opera di Dante dall’epoca in cui Bossetti ne riscrive i caratteri. Il poeta-professore di Barbania si rivolge infatti all’autore della Commedia con la stessa deferenza con cui parla ai suoi contemporanei, per rendere loro omaggio o per fustigarne i vizi. Al giudizio storico-critico si sostituisce sempre quello morale, ulteriormente annacquato da convenzionali esaltazioni della poesia.
La storia collettiva e nazionale fa invece capolino nella corposa sezione di Odi e inni del I volume dell’edizione Viassone, specialmente in Ivrea, poemetto in trentasette sestine di endecasillabi che ripercorre la storia del capoluogo canavesano, dai Salassi all’età contemporanea. Nell’ode è la città stessa a parlare in prima persona, rievocando la gloria e l’eroismo (ma anche alcuni episodi di vergogna o ignavia) del suo passato. «Io son figlia d’Italia e fui regina: | e s’oggi più non porto la corona, | serbo nel petto la virtù latina: | sottile ho il fianco, poca la persona: | ma l’alma ho grande, di ver pregio calda, | e in guerra al par de le mie rocche salda». Basta la strofe iniziale per rendersi conto che anche la personificazione di Ivrea si esprime alla stregua dei personaggi danteschi; l’opposizione tra l’identità attuale e quella di un tempo («son figlia … fui regina») è infatti un calco della celebre presentazione con cui si rivela il protagonista del canto VI del Paradiso: «Cesare fui e son Iustinïano».
I Salassi sono detti «un popol fero, dall’aspetto arcigno, | che, maschio il cor, fortissimo le membra, | ancor tenea del monte e del macigno»; il lettore riconosce qui l’espressione con cui Brunetto Latini aveva definito i fiorentini («quello ingrato popolo maligno, […] e tiene ancor del monte e del macigno», Inf. XV 61-63). Al centro dell’ode Bossetti dedica alcune strofi ad Arduino, presentandolo naturalmente come un paladino dell’impero e un antesignano dell’unità d’Italia, secondo la pubblicistica politica del secolo XIX: «Ben s’avvenne lo scettro a man più salda | quando il serto in Pavia cinse Ardoino, | di libertà, d’onor anima calda, | prole gentil del buon sangue latino: | prode, gagliardo, generoso, altero, | degno de’ sommi onor, degno d’impero».
Come per sopperire all’assenza di Arduino nel novero dei personaggi danteschi, Bossetti ne descrive la nobiltà con una variazione – generica ma efficace – sul Petrarca della canzone all’Italia (RVF CXXVIII, «Latin sangue gentile», v. 74). Dopo il periodo medioevale, la voce di Ivrea ripercorre le vicende più vicine nel tempo, soffermandosi sulle tappe risorgimentali e citando per ultima la battaglia di San Martino e Solferino (24 Giugno 1859), che costituisce anche il terminus post quem per la datazione dell’ode.
Nell’immagine in alto: Il frontespizio del I volume dell’edizione del canzoniere di Giovanni Bossetti, pubblicata a Ivrea nel 1921 dall’editore eporediese Francesco Viassone per iniziativa dei nipoti del poeta, con la curatela di Bernardo Chiara
(continua)