(Michele Curnis)
(continua dal Risveglio Popolare del 23 settembre)
Quando pubblicò in forma completa il suo poema più articolato e ambizioso, Il trionfo di Dante e d’Italia, Giovanni Bossetti rivelò che l’idea della composizione era nata nel 1865 a Vercelli, ovviamente in occasione del centenario dantesco, che per la prima volta si celebrava nelle forme delle onoranze nazionali, dallo sfondo tutto politico. Alcuni canti erano usciti in forma isolata su riviste e opuscoli, ma poi il progetto si era interrotto. Fu necessaria un’altra circostanza speciale, come il cinquantenario dello Statuto Alber-tino del 1848, perché Bossetti si decidesse a riprendere e completare la composizione del poema, che uscì infatti a Torino nel 1898, pochi mesi prima della morte dell’autore.
Tanto nell’aspetto metrico-formale quanto nella struttura narrativa, Il trionfo di Dante e d’Italia imita la Commedia: è il racconto di una visione, ambientata tra cielo e terra, cui il poeta assiste; è suddiviso in venti canti, ognuno dei quali in terzine di endecasillabi a rima concatenata; ed è ovviamente il poeta stesso a narrare in prima persona l’esperienza soprannaturale.
Il Bossetti-personaggio, però, a differenza del Dante-personaggio, non è protagonista, ma soltanto spettatore privilegiato; il protagonista autentico è lo spirito di Dante, che insieme a Beatrice discende dal paradiso per visitare il sepolcreto dei Savoia, nella Basilica di Superga, e per recarsi nei luoghi più rappresentativi degli scontri risorgimentali, fino a raccogliersi all’interno della chiesa di Santa Croce a Firenze, e da lì assistere all’inaugurazione del suo proprio monumento, avvenuta il 14 Maggio 1865. Inoltre, il canavesano Bossetti evita accuratamente di presentarsi come un novello Dante, e perciò affida al suo Dante-personaggio il compito di profetizzare e di ammonire, «provando e riprovando» (Par. III 3, ossia “approvando e biasimando”) le azioni e l’opera dei fautori o dei nemici dell’unità italiana.
Rivolgendosi appunto alle anime dei Savoia, nel canto II, lo spirito di Dante li encomia per il compimento della riunificazione: «o gagliardi, che in istato | drizzaste la più nobil monarchia: | chè a voi si debbe, a voi, s’altra fïata | rivive Italia, e a dì miglior s’avvia». Dante parla all’anima di Carlo Alberto, prefigurandogli la gloria di suo figlio, Vittorio Emanuele II: «è Vittorio, il gran Re, figlio tuo degno. | Perché a tutti i monarchi andrà di sopra. | Sovra l’amor egli fondò il suo regno: | ei sicuro sen vive ed onorato: | fatto a l’amor de le sue genti segno, | Re d’Italia fia ’n Roma incoronato».
Nel corso del canto IV, in volo sopra Torino, Carlo Alberto presenta a Dante le anime di Camillo Cavour e Vincenzo Gioberti, che resteranno presenti in tutte le fasi successive della visione. Lo spirito di Cavour è ancora escluso dal paradiso, perché il fato di Roma non è compiuto: «Monda Roma, e ritolta al vitupero, | il mio bando dal ciel sarà finito», spiega il Conte, richiamando allusivamente la condanna anti-ecclesiastica con cui Dante prorompe in Inf. XIX 106-117 (un passaggio che, nel testo di Bossetti, sarà testualmente ripreso più tardi, in un altro dialogo tra Dante e Cavour). Dopo una rapida visita a Vercelli, gli “spiriti magni” si spostano in volo a Palestro, Novara, Magenta, Milano, San Martino e Solferino. Da ognuno di questi campi di battaglia si levano le anime dei caduti per la causa italiana, che narrano a Dante l’eroismo di Vittorio Emanuele II o le loro stesse imprese. In questa fase centrale del poema, la funzione del Dante-personaggio è assai ridotta, perché si limita a condividere la celebrazione dell’epopea risorgimentale. È invece sempre fondamentale la funzione stilistica, giacché Bossetti fa parlare tutti i dialoganti per mezzo di formule ed espressioni ricorrenti nella Commedia (certo, sentir parlare i Savoia, Gioberti e Cavour con le stesse parole di Farinata degli Uberti, Ciacco o Pier delle Vigne produce un effetto un po’ buffo …).
A onor del vero, la struttura della maggior parte dei canti è molto ripetitiva, e lo scambio di battute convenzionale e prevedibile. Un momento di pregevole poesia è, però, nell’attacco del canto XVI, dedicato alla presentazione di Venezia, del Leone e del Genio della città lagunare, in dolente attesa dell’unificazione all’Italia: un’atmosfera di sofferente incertezza, che Bossetti – rinunciando per una volta al calco pedissequo del modello dantesco – esprime in autonomia e secondo lo spirito degli anni Sessanta dell’Ottocento, come nel celebre quadro di Andrea Appiani jr.
Nella parte finale del poema, gli spiriti magni discendono in Santa Croce, dove mille anime prontamente accolgono Dante e ne celebrano il ritorno a Firenze. Ora il modello narrativo di Bossetti è il Carme dei sepolcri di Foscolo, perché dalle rispettive tombe lì edificate le ombre di Machiavelli, Galilei, Michelangelo, Tasso e Alfieri si fanno incontro a Dante e gli rendono onore, per poi cedere la parola alla voce di Petrarca, che intona una canzone in onore di Beatrice.
È presumibile come l’ispirazione poetica si smarrisca nell’ansia di rammemorare le principali glorie della civiltà italiana e di rappresentarle in conversazione con il sommo Poeta. Già nel 1921, quando lo incluse nella sua rassegna su Dante e il Canavese, Federico Ravello giudicò severamente il poema di Bossetti, negandogli qualsivoglia genuina ispirazione e riducendolo a uno stanco centone di passi e stilemi della Commedia. In effetti, chi vi ricercasse originalità poetica resterebbe deluso; tuttavia, è presumibile che l’intenzione dell’autore fosse piuttosto diversa. Bossetti volle infatti ideare una glorificazione del Risorgimento in termini epici, e il ricorso a Dante, alla lingua, al metro e al lessico della Commedia gli servì appunto per legittimare tale esperimento letterario, conseguenza di una ferrea e incondizionata fede politica.
Cento anni più tardi, il poema risorgimentale di Bossetti appare alquanto complesso, nonostante le numerose ingenuità nell’impalcatura narrativa e le forme stucchevoli dello stile. Il principale difetto, forse, è nella parzialità della prospettiva: Il trionfo di Dante e d’Italia non può dirsi un canto nazionale, perché l’Italia di cui parla è in realtà soltanto quella del regno di Sardegna, dei Savoia, e in particolare dei piemontesi (o al massimo dei milanesi) caduti nel corso delle varie guerre.
È un’epopea che celebra soltanto una regione della nuova nazione, dimenticando quasi tutte le altre, tanto in termini di cooperazione come di ostilità o di ideologia contraria. Ma, evidentemente, un giudizio equilibrato, sine ira et studio, sui decenni delle campagne d’indipendenza e il loro esito sarebbe superiore alle forze dell’autore. Da ultimo, resta nel lettore un’impressione amarognola di incompiutezza, come se la “stanca mano” fosse caduta prima di poter aggiornare l’epopea all’annessione di Venezia (1866) o a quando Roma divenne effettivamente la capitale del Regno d’Italia (1871). Fissando la data della visione al Maggio del 1865, Bossetti preferì circoscriverne l’argomento a partire dagli anni di Carlo Alberto fino all’inaugurazione della statua di Dante a Firenze in occasione del centenario.
Pur segnato da così forti limitazioni, il poema si fa veicolo di un messaggio storico – che il dantista Ravello non colse – attraverso la cronaca spirituale delle guerre d’indipendenza, rivisitate dalla specola del paradiso cristiano e sotto l’auspicio del presunto fondatore del sentimento nazionale italiano, ossia Dante.
Dunque, una ricostruzione storiografica e politica che oggi sappiamo essere del tutto infondata, ma che nel 1921 (quando si pubblicò a Ivrea l’edizione Viassone del canzoniere di Bossetti) risultava più che mai diffusa e accettata. Non dovendone discutere la plausibilità storica, Ravello andò cercando invano quello che il poema di Bossetti non può offrire: la poesia assoluta e universale.