Negli Anni ’70 ebbe postuma la piccola fortuna di una breve riscoperta grazie al singolare film per la televisione prodotto dalla Rai per la regia di Ugo Gregoretti, trasmesso nel 1975: era tratto dal suo romanzo di successo Gli ammonitori, raro esempio di romanzo italiano di tema proletario e urbano. Tra gli attori della versione cinematografica vi furono: Gipo Farassino, Milena Vucotik, Vittoria Lottero, Dante Versate, Pierluigi Aprà, Franco Bergasio, Roberto Bisacco e altri.
Nacque a Montanaro il 12 gennaio del 1870 in una famiglia molto povera. Il padre Giovanni, tessitore domestico e la madre Maddalena Biletta, venditrice ambulante di stoviglie; numerosi i fratelli. La miseria e la durezza della vita familiare fecero da pesante cornice alla sua infanzia. Compì gli studi elementari in paese, aiutando il padre al telaio e seguendo la madre come ambulante. Crebbe gracile e malaticcio.
Dopo le elementari in paese, riuscì a frequentare i corsi per i poveri dell’Istituto Cottolengo di Torino e poi al seminario di Ivrea ma qui si trovò insofferente alla disciplina e non volle seguire quel percorso. Intellettualmente curioso, portava e porterà sempre l’orgoglio e la diffidenza del mondo contadino. Riuscì ad entrare alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino sopravvivendo dando lezioni private. Fu il primo passo verso una vita di letterato e di uomo di cultura singolare, avrebbe poi maturato una coscienza laica, intrisa di positivismo, mantenendo un vigile istinto mistico, giustizialista, dalla profonda radice cattolica dei contadini delle campagne.
Apprezzato da Arturo Graf, entrò nella cerchia della scapigliatura torinese, stringendo amicizia con i pittori Giuseppe Pellizza da Volpedo, l’autore del famoso “Il quarto stato” e Anton Maria Mucchi, nel cui salotto torinese, al quartiere della Madonna del Pilone, si incontrava con lo scultore Leonardo Bistolfi, l’antropologo Cesare Lombroso, e con gli intellettuali positivisti come Edmondo De Amicis e il filosofo Annibale Pastore con cui condivise in confidenza la cultura positivista, la razionale fiducia per il progresso della tecnica, il futuro nell’organizzazione sociale, tutti elementi che avrebbero dovuto lenire la sua amara inclinazione pessimistica.
Scrisse per «L’Arte» di Parma e per «Il Popolo della Domenica» di Torino. Nel 1896 divenne redattore de «La Triennale, rivista illustrata d’arte». Schivo e selvatico, non si trovò bene nell’ambiente del mondo intellettuale torinese. Così come quando scriveva non esitava a travolgere mode, convenzioni e stili.
Il suo primo lavoro Madre pubblicato da Streglio a Torino nel 1897 fu ammirato da Graf per la sua scrittura originale perché sincera nell’articolo “Per un nuovo poeta”, apparso nella «Nuova Antologia», del 16 febbraio 1899. Come critico fu polemico verso i romanzi di D’Annunzio, ammirava Zola, pur non lesinando critiche quando il francese cadeva nella “moda letteraria dei poveri”. Nota che fece a Pascoli, dove la rappresentazione arcadica del mondo agricolo di chi non era contadino era puro esercizio retorico.
A Montanaro terminò di scrivere il 2 novembre 1898 In umbra, dedicato allo scultore Leonardo Bistolfi. Nel 1900 si recò a Parigi per l’Esposizione Universale e vi restò un anno in cui riuscì a raggiungere anche Londra, viaggio che gli aprì nuovi orizzonti. Segnalato dal saluggese scrittore e politico Giovanni Faldella, venne chiamato a Roma, nel 1901, da Maggiorino Ferraris, come redattore della «Nuova Antologia». A Roma dove trovò un felice equilibrio, avrebbe trascorso tutto il resto della sua vita, salvo brevi soggiorni in Piemonte.
Nell’ambiente mondano e letterario trovò una confidenza che era mancata nella chiusa cerchia torinese degli anni giovanili. Sollevato dal penoso sentimento della sua inferiorità sociale, tutto teso nel suo compito di pubblicista, in un ambiente nuovo egli tornò al tema del mondo contadino in un contesto sociale diverso, nel deserto del latifondo che caratterizzava l’Agro romano. Il
problema della bonifica, dell’analfabetismo, della malaria erano piaghe sociali.
Andò a convivere con Marta Felicina Faccio, da qualche tempo approdata a Roma in fuga da un matrimonio violento, e la incoraggiò a trasformare la sua storia di vita vissuta in un libro di memorie romanzate, assumendo lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. Nel 1906 fu pubblicato il suo primo romanzo dal titolo Una donna, che è considerato il primo romanzo femminista italiano ed ebbe tanto successo quanto lo scalpore che provocò.
Gli anni romani di Giovanni Cena furono un apprendimento delle condizioni della vita contadina nell’Agro romano che visitò tra il lavoro di redazione della «Nuova Antologia» e la stesura del suo romanzo Gli ammonitori. Nel 1904 prese avvio il programma di “Scuole serali e festive dell’Agro romano” a cui si dedicò per anni con l’appoggio dell’Unione Femminile Nazionale e di privati finanziatori, coadiuvato dal medico Angelo Celli. Tre anni dopo erano otto scuole con 340 allievi; nel 1910 salirono a 44, 18 sul territorio di Terracina e nelle paludi pontine: complessivamente 51 classi a corso serale, 4 a corso diurno e 7 a corso festivo. Arrivò anche l’aiuto statale e degli enti pubblici territoriali. Il terremoto di Messina lo impegnò nell’opera di soccorso, anticipò il tema della rivoluzione agricola nel Mezzogiorno come grande problema nazionale. La Grande guerra lo colse confuso.
Contrario all’intervento, perorò la causa della neutralità, poi l’antico pessimismo prese il sopravvento e divenne interventista. Malgrado la salute, si adoperava con il consueto attivismo e pubblicò il patriottico «Il Piccolis-simo», in funzione antisocialista, poi costituì un comitato per l’aiuto ai profughi serbi e organizzò i soccorsi per il terremoto che colpì l’Abruzzo nel 1916. Visitò più volte il fronte nel 1915 e 1916.
Perse il fratello Antonio nell’esplosione della fabbrica delle bombe a Borgo-franco d’Ivrea un mese prima di morire: colpito da polmonite fulminante, spirò a Roma il 7 dicembre 1917.