(Michele Curnis)
La prima edizione degli Aspetti della poesia di Dante di Giovanni Getto è datata «Ivrea, 31 agosto 1945». Il volume, articolato in tre capitoli, uscì soltanto nel 1947 per la casa editrice Sansoni e costituì una risposta alternativa al famoso saggio di Benedetto Croce, La poesia di Dante, pubblicato in occasione del centenario del 1921.
L’aspetto del libretto licenziato a Ivrea subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale è quello di un trittico di articoli scientifici (inediti i primi due, apparso nel 1944 il terzo, nella raccolta Religione poesia arte), opera di uno studioso maturo, che da molti anni frequentava la poesia di Dante e l’animata bibliografia di quel periodo. In realtà, nel 1945 Getto aveva appena trentadue anni, e soltanto dodici anni prima, nel 1933, si era diplomato al Liceo Classico “Carlo Botta”.
Solo sei anni intercorsero poi tra la conclusione degli studi superiori e la pubblicazione della prima monografia a stampa, su Caterina da Siena, pubblicata a Firenze nel 1939. Quindi, evidentemente in corrispondenza con gli anni della guerra, la riflessione sulla letteratura religiosa si diresse verso il Dante della Commedia, e in particolare del Paradiso, alla ricerca dell’autentica natura di quella speciale, ineffabile e misteriosa poesia. Il libro fu molto fortunato, tanto che circa vent’anni più tardi, quando Getto era ormai professore ordinario di letteratura italiana all’Università di Torino, fu ripubblicato, con lo stesso titolo ma con l’aggiunta di altri sei contributi, diventando così un volume di quasi duecentocinquanta pagine.
La prefazione della seconda edizione, datata «Torino, 3 marzo 1965», rende conto dell’occasione editoriale (il nuovo centenario, ovviamente), ma non aggiunge nulla di nuovo rispetto alle istanze della prima edizione. È dunque a Ivrea che Getto maturò la convinzione che «il volume crociano […] piuttosto che stimolare ad un esame dei valori poetici della Commedia, ha avviato una lunga polemica intorno a quel problema della struttura e della poesia, posto, o meglio, riproposto dal critico filosofo in maniera più esatta e decisa» (secondo le parole della Premessa alla prima edizione). Rispetto alla separazione della presunta “vera” poesia di Dante dalle superfetazioni dottrinali ed erudite (che effettivamente costituiva uno dei temi conduttori, ma non l’unico, dell’indagine di Croce) e alle investigazioni filologiche e storico-testuali di Michele Barbi e della sua scuola, Getto proponeva una terza via critica di accesso a Dante, certamente più difficile: definire le origini, le intenzioni e la natura intima di quella poesia.
Allo stesso tempo, pur dalla specola della piccola Ivrea, Getto rendeva evidente l’ambizione di superare i limiti della lettura dantesca secondo le tendenze nazionali, che spesso ripetevano stancamente le acquisizioni dello storicismo ottocentesco. «Abbiamo accolto con un interesse vivo e diretto, e non solo per una curiosità rivolta al suo autore, la traduzione […] degli scritti su Dante di T. S. Eliot. Un libro discutibilissimo e inaccettabile per tante cose, ma al quale non si saprebbe negare quel senso di interiore affiatamento che (come notava il Praz a proposito di altre pagine su Dante che influirono sull’Eliot, quelle di Ezra Pound in The Spirit of Romance) difficilmente potrebbe essere comunicato dagli scritti di tanti professionisti e specialisti in questo genere di studi».
Francamente inattesa, nella presentazione di un libro imperniato sulla tradizione letteraria religiosa, teologica e tomistica della Commedia, la menzione di nomi come quelli di Thomas Stearns Eliot (1888-1965) o di Ezra Pound (1885-1972), favorita anche dalla mediazione del grande anglista Mario Praz (1896-1982); inattesa, forse, soprattutto in Piemonte, visto che il più celebrato “declamatore” di Dante era allora il professore di lingua e letteratura italiana dell’ateneo torinese, il poeta Francesco Pastonchi (1874-1953), che neppure agli inizi degli Anni Cinquanta simulava il proprio disprezzo nei confronti di letterati e poeti stranieri che si permettessero un’interpretazione personale di Dante.
Come scrisse nel 2003, in ricordo del suo maestro e specificamente sugli Aspetti, uno dei più geniali allievi di Getto, Edoardo Sanguineti (1930-2010): «Il richiamo ai due grandi poeti significava […] la decisione di uscire decisamente dal recinto dell’esegesi idealistica di stampo crociano, immettendo nel discorso interpretativo, schiettamente, la lezione che derivava, prima ancora che da nuove strategie critiche, dalle poetiche novecentesche che avevano radicalmente rinnovato il rapporto con la tradizione della cultura artistica e con le ragioni del canone, imponendo un diverso rapporto con i testi dei grandi classici».
Il culmine ermeneutico del libro di Getto, tanto nella prima quanto nella seconda edizione, è nell’ultimo capitolo, Poesia e teologia nel Paradiso di Dante, testo che determinò un corso nuovo nell’accostamento alla terza cantica. Eccone l’attacco: «Poesia e teologia: i due termini sono presenti , in attiva o inerte polemica, a tutta la critica dantesca, dove ricorrono ed operano nel giudizio come inscindibile binomio, perpetuamente ricorrente, di una necessaria e positiva sintesi, o al contrario di una preoccupante e fatale antitesi, o infine di una indiscussa condizione, fertile tuttavia di un laborioso esercizio di astrusa esegesi». Tutte queste modalità di spiegazione del binomio poesia e teologia, evidentemente, risultano per Getto insoddisfacenti; in particolare per il Paradiso, lo studioso eporediese non accetta la scissione tra momento narrativo (ossia l’ascesa di cielo in cielo, fino all’intuizione di Dio) e momento speculativo o intellettivo. Da tale dissidio, infatti, nascerebbe tutto l’equivoco del rapporto tra poesia e teologia nella ricezione critica del Novecento.
Prendendo spunto dalla prima parola della cantica, per esempio, Getto spiega che «La gloria di colui che tutto move» va intesa come massima dignità dell’essere soprannaturale, che si diffonde nell’universo. Ma tale gloria non riveste alcuna funzione enfatica; anzi, è posta all’inizio del paradiso perché Dante allude al suo elemento costituente, ossia la grazia. Getto ricorda come Tommaso d’Aquino avesse appunto definito la grazia come «semen gloriae» e, al pari della fede, come «vitae aeternae quaedam inchoatio», ossia “germe della gloria” e come “una specie di avviamento verso la vita eterna”. Riprendendo implicitamente tale definizione della grazia, Dante ne espliciterebbe così il duplice esito, del movimento e della gloria, ma abbinato a Dio.
Sin dai primi versi della cantica, pertanto, il poeta presenterebbe la materia del suo canto come poesia della grazia, nelle sue più alte potenzialità. Di conseguenza, «colui che tutto move» deve per forza essere il vero protagonista della cantica, verso cui tende l’appassionato viaggio del pellegrino. Ecco un’altra fondamentale intuizione di Getto, solidamente ancorata alla tradizione religiosa del Due e Trecento: se il Dio cristiano è l’autentico e unico personaggio principale del Paradiso, è necessario che il poeta affronti il resoconto dell’ascesa per mezzo di specifici accorgimenti espressivi.
Il paradiso – avverte Dante – è indicibile. Il poeta appena può rendere un’ombra di tutto quello che ha visto, sentito e provato attraversando i cieli. Ma tale indicibilità, spiega Getto, non è né una strategia retorica né un’invenzione di Dante. Lo studioso ripercorre una tradizione che va dalla Seconda lettera ai Corinzi (in cui Paolo afferma di essere stato rapito in cielo, dove «audivit arcana verba que non licet homini loqui») all’Ago-stino delle Confessioni e allo Pseudo Dionigi della Teologia mistica. Tutte queste opere sono pervase da un principio tipico della religiosità medioevale, secondo il quale di Dio si deve parlare solo per via indiretta, attraverso la confessione dell’impossibilità di parlarne. Nella lettura di Getto, Dante applicherebbe questo itinerario non solo alla contemplazione finale della divinità, bensì all’intera esperienza del paradiso.
Non sintesi né antitesi né condizione irrinunciabile: poesia e teologia sono connaturate in Dante, perché l’esperienza del credente, la sua aspirazione come membro della comunità di salvazione e gli imperativi etici che ne derivano sono gli agenti costitutivi della poesia. Più che conclusione, è il punto di partenza di un’analisi della Commedia del tutto nuova, una lettura pura e libera da pregiudizi di qualunque sorta. Per ridare la parola a Sanguineti: «Il problema non sarà davvero, allora, quello di sfrondare le pagine del Paradiso dall’ingombro dottrinale del Dante teologico, ma anzi, e all’opposto, di definire criticamente la vera, la personale, la inconfondibile teologia dantesca, ove essa emerge effettivamente, con la sua intima energia espressiva» (Getto lettore di Dante, «Lettere italiane», LV 3, 2003). La teologia, insomma, si fa poesia per sua propria natura, diventando il “romanzo teologico” dell’esperienza di Dante.