(di Fabrizio Dassano)
Sono iniziati gli esami di maturità. L’appuntamento di fine anno scolastico decisivo. La prima grande prova nell’ingresso nel mondo degli adulti, secondo la scuola.
La maturità porta ai ricordi, alle emozioni, agli stati d’animo d’attesa e di tensione, al farsi coraggio e allo studio concentrato in vista degli esami. Ricordo che con i miei compagni si faceva il caffè la sera per allenarsi ad affrontare le grandi prime prove: gli scritti. Quel mattino alle 8 per la prima volta la classe era disunita, frammista agli altri. A rendere differenti quelle mattine era il non avere più la solidarietà o il senso della squadra che animava: si era una massa di studenti sui banchi distanziati in quel grande corridoio in cui nei cinque anni precedenti si consumavano gli intervalli della mattinata, in cui si correva per correre fuori al suono della campanella di fine giornata.
Ma allo scritto l’atmosfera era differente: l’aria pesante si tagliava con il coltello. Forse era la prima volta che il silenzio in una scuola era pressoché totale. Ricordo che entrarono i Carabinieri con i plichi gialli: di li a poco si sarebbe conosciuta la traccia, la consegna della prova. I minuti non passavano e noi assistevamo immobili al rito dell’apertura delle buste, cercavamo di cogliere la minima espressione del presidente della commissione d’esame, una smorfia di sorriso o un aggrottare di sopracciglio. Era un tempo sospeso ed interminabile. Poi la dettatura del tema e l’emissione vocale squarciava il silenzio del tempo e di fatto dava il via al conto alla rovescia della partenza. Avevamo preso un bel respiro di liberazione e di concentrazione.
Poi dopo un po’, forse un’ora o due, le teste iniziavano a roteare, gli occhi cercavano di cogliere dai compagni meno lontani qualche conferma o qualche cenno che potesse essere di conforto. I commissari non ci perdevano d’occhio e chi esagerava nell’eloquenza di un gesto troppo esplicito, veniva ripreso automaticamente. Si cercava sempre lo sguardo dell’unico commissario interno, un professore “amico”.
Ricordo che venne solo rispettato il sacro intervallo con il panino. Consumato senza muoversi dal banco, quasi a testa bassa. Poi l’ultimo rush e fuori a respirare all’aria aperta, ed invece di ritrovarsi soli per andare a casa, c’erano tutti quelli già usciti e allora un torrente di parole, di domande di risposte, quel vociare tipico nostro della vecchia classe. Poi ad aspettare gli altri. Pronti per la prova dell’indomani. Ma ormai il ghiaccio era rotto. Avevamo la sensazione di potercela fare e i problemi sembravano ridotti a quelli del sorteggio per sapere quando si sarebbe passati agli orali. La corsa era appena iniziata e sembrava lunghissima, scandita solo dai giorni e dai rientri a casa.
È un fatto generalmente noto che quasi tutti quelli che hanno passato questo rito, lo sognino per molto tempo dopo. Ed è vero. All’Università non ho mai sognato un appello, ma l’esame di maturità l’ho risognato sempre, fino a qualche anno fa. Eppure in Italia con circa il 61% della popolazione diplomata siamo ancora molto lontani da quella media del 77,5% degli stati dell’Unione Europea. Anzi, siamo penultimi. E molto lontani dall’irraggiungibile 85% fissato dall’obbiettivo di Lisbona per il 2020.