Armando Michelizza ha terminato il 20 settembre scorso il suo quin- quennio da “garante dei diritti delle persone private della libertà personale”: i detenuti, in altre parole.
Friulano di origine, ha 70 anni, sposato con figli ormai adulti, votato all’impegno sociale e al sin- dacato, è arrivato nell’eporediese con in tasca il diploma di PIC (“perito industriale capotecnico”) che oggi lo fa sorridere quando lo dice, per lavorare tre anni come tecni- co all’Olivetti e poi quindici alla CISL. Formatore in car- cere per vent’anni, oggi è in pensione e si dedica agli immigrati. Insomma, un tipo che non sa stare tranquillo e che, forse, di troppa tranquillità non saprebbe che farsene.
Lo abbiamo incontrato in redazione per parlare della sua relazione di fine mandato che ha consegnato al Presidente del Consiglio Comunale di Ivrea. Già, per- ché si diventa “garante” a seguito di un bando lanciato dal Comune che ha un carce- re sul proprio territorio. Ivrea, 5 anni fa, è stata la seconda città – dopo Torino – ad aver- lo e ancor prima della nomi- na del “garante regionale”.
Dalla relazione conclusi- va del suo mandato – e dalla sua intervista – appare chiaro che per lui il carcere non è pura custodia e neppure con- trollo e contenimento. Per lui, davanti, anche se privato di libertà, c’è sempre una per- sona alla quale non si può far mancare una prospettiva per il futuro. Per questo nella sua relazione parla di “riconquistare” la persona, attraverso un’idea ben chiara di cosa sia l’educazione. Di fatto, la privazione della libertà non è la “punizione” più pesante – sovente accettata per il danno commesso -: lo è invece la condanna all’ozio, al tempo vuoto che rende le giornate insopportabili in una “prospettiva senza prospettiva”.
Cinque anni da garante: Michelizza, come li riassumerebbe?
Ho tentato, non da solo, di portare un po’ di speranza nelle persone detenute, la speranza che la comunità esterna non li ha dimenticati e vuole occuparsi di loro.
Che cosa vorrebbe che facesse la comunità esterna per i detenuti?
Che considerasse quella del carcere una parte della città, una periferia, ma facente parte della città. E offrirle delle possibilità di percorrere strade diverse.
Strade diverse: il lavoro, per esempio?
Il lavoro oggi è poco per tutti. Si potrebbe rendere possibile l’accesso al servizio volontario civile, che oggi è precluso ai giovani che abbia- no una condanna. Se la legge prevede questo, potrebbe però esserci una sorta di servizio civile intercomunale che offra delle attività di volontariato.
E se invece parliamo di lavoro tout-court?
Sarebbe il massimo. Ho un po’ di pudore a parlarne perché voglio evitare quella battuta un po’ infelice che dice “ma allora per trovare lavoro bisogna andare in car- cere”. No. Nessun privilegio, ma certo è interesse anche della comunità offrire oppor- tunità a chi è in carcere per- ché ha sbagliato.
Quanto guadagna un garante?
Un po’ di mal di fegato, ma anche qualche rara soddisfazione. Tutti i garanti del Piemonte sono praticamente dei volontari; nel caso di Ivrea c’è un rimborso spese annuo che non può superare i 300 euro.
Quali “vantaggi” ha avuto da questo suo ruolo?
Credo di aver ricevuto un ulteriore pezzo di educazione, che intendo come cresci- ta personale. Credo di avere imparato ancora di più a non giudicare, e a capire che ci sono molte persone che non hanno avuto le mie (le nostre mi verrebbe da dire), possibilità o se le hanno avute le hanno perse. E che sarebbe utile, anche per noi della
comunità libera, offrirle di nuovo, per avere restituite dal carcere persone che camminino in modo onesto.
Nella società si diffonde l’idea di incarcerare e poi buttare via la chiave…
Sì, quello che mi spaventa è la sfiducia nell’educazione, o nel credere che educazione voglia dire punizione e basta. Educazione per me è crescere, offrire opportunità di crescere.
La privazione della libertà non è la punizione maggiore, quanto piuttosto il vuoto del tempo che passa.
Per chi capisce di aver sbagliato, e sono tanti, la privazione della libertà è accettabile. Quello che non è accettabile è svuotare l’avvenire di speranza, il passare la giornata a non costruire nessun tipo di futuro, il che pro- duce solo rabbia, rancore, risentimento. E recidiva. Quindi con un danno per chi è detenuto, ma anche per la società che aspetta fuori.
Il garante è nominato in seguito a un bando del Comune. Che collaborazione c’è stata tra lei e il Comune di Ivrea?
Non posso lamentarmi. Fin dall’apertura del carcere, il Comune di Ivrea e anche alcuni altri Comuni della zona, sono stati attenti ad attuare bandi regionali, nazionali o europei che dessero la possibilità di borse lavoro, cantieri lavoro, cioè attività educative o lavorative. Riuscimmo a fare una riunio- ne quasi di mezzo Consiglio comunale all’inizio del mio mandato che fu molto apprezzato anche dai detenuti che vi parteciparono, per- ché sono segni di attenzione. Io dico spesso che c’è un doppio speculare errore, quelli di fuori molto spesso non si aspettano niente di buono da quelli di dentro.
Che cosa intende quando nella sua relazione scrive “che pena sapere la povertà delle nostre risposte”?
Che una delle cose più tristi è sentire delle persone, ancora più quando sono gio- vani, chiedere: “Aiutami a non tornare più qui!”. E io sapere che le possibilità di aiuto sono molto limitate.
Garante, quindi difenso- re dei detenuti. E l’amministrazione penitenziaria quella che ha le chiavi in mano. Come siete riusciti a collaborare?
Una delle cose che mi ha dato più soddisfazione è stato tentare di smontare questa visione manichea e sbagliata. Siamo andati più volte insieme, la direttrice De Rienzo ed io, a camminare nelle sezioni, a incontrare le perso- ne detenute, a sentire le loro proteste, i loro reclami, anche i loro insulti qualche volta, e comunque a non sottrarci a questo confronto e a
farlo insieme. Quindi, come dire, a smontare l’idea che ci sia il garante buono e la direzione cattiva. Non è così. Abbiamo tutti il compito di partecipare alla educazione o rieducazione, io preferisco la parola riconquista, delle persone che sono detenute.
Lei scrive che il falli- mento del nostro carcere è la recidiva…
Certo. Non è un’evasione, uno che scappa, il falli- mento del carcere. Il falli- mento è il 60-65% di persone che quando escono ricascano dentro. Di questo dovremmo occuparci.
Come giudica l’attuale temperie di esclusione e razzismo strisciante verso un po’ tutte le persone in situazioni di disagio? Andiamo verso il peggio?
Sì, temo che oggi prevalga un’idea di sicurezza che si basa sull’esclusione. Che si parli di migranti, di diversi, di persone che hanno sbaglia- to… si pensa che marginalizzandoli, mettendoli fuori dalla cinta della città la città sia più sicura. Sono convinto che è l’inclusione, il modo di costruire sicurezza. Temo che troppi intendano sicurezza come il bastone, la punizione. Credo invece che non abbiamo alternativa alla carota, cioè a far apprezzare com’è bello vivere secondo quel manuale di benessere che è la Costituzione, e se vuole anche il Vangelo.
In una relazione sincera come la sua, riconosce che comunque lavorare in carcere è difficile?
Quello della polizia penitenziaria è un lavoro pesantissimo perché quotidiana- mente a contatto con perso- ne che manifestano malesseri, e l’agente è molto spesso l’unico interlocutore, tra l’altro impotente, nel senso che non ha soluzioni. Credo sia uno dei lavori più logoranti al mondo.
“Se anche non mi puoi aiutare, quando puoi vieni a guardarmi”, le ha detto un detenuto…
Chiedeva di non essere dimenticato. Ho interpretato come se lui si sentisse niente per nessuno, e quindi mi chiedeva di andare a “guardarlo”, nemmeno a parlare; si accontentava di uno scambio di sguardi che gli dicesse che esisteva.
Consiglierebbe il volontariato in carcere?
Senza gli amici della “Tino Beiletti” forse non mi sarei nemmeno candidato. Li conoscevo prima e se posso dire una cosa ai lettori è: venite a vedere il carcere, partecipate ai corsi che l’associazione annualmente fa per preparare i volontari, perché è un’esperienza anche umanamente faticosa ma davvero umanizzante. Io dopo questi anni sono forse più umano.