Chissà che cosa avrebbe scritto, di questo nuovo racconto di Giovanni Mariotti, Pietro Citati, che dello scrittore versiliese è stato il più autorevole ammiratore, fino a elogiare la sua Storia di Matilde (Adelphi) come “il più bel romanzo del secondo Novecento”?

Perché, dopo la lettura de I manoscritti dei morti viventi, fresco di stampa per La Nave di Teseo (pagg. 158, 17 euro), è naturale trovarsi un po’ spiazzati… e quindi abbiamo pensato di andare a rivolgere qualche domanda all’autore (che da diversi mesi scrive anche sul nostro Risveglio Popolare), per farcene dare una chiave di lettura. Senza dubbio, il titolo e l’immagine di copertina non si può dire siano rassicuranti: si capisce che è una storia di revenants, di spiriti infelici, di aspiranti scrittori che non si danno pace e tornano con intenti vendicativi per promuovere la pubblicazione postuma dei loro manoscritti ignorati o rifiutati…

Ma poi, leggendo, si sente che c’è dell’altro, dietro questo plot vagamente horror, le cui fila sono tenute da un io narrante che fa capo a una giovane donna (responsabile per la narrativa italiana di una grande casa editrice), una figura femminile che, alla fine, tra sogni, allucinazioni e altre stranezze, si consegnerà a un destino che la porta a un’uscita di scena da quell’inquietante costruzione ideologica che si persiste a chiamare “realtà”…

Di sicuro, Mariotti non appartiene a quella folla indistinta di frustrati scriventi, visto che nel suo lungo curriculum di autore annovera importanti case editrici (Feltrinelli, Mondadori, Adelphi, Marsilio…) e la presenza come direttore di collana e tuttora consulente per la prestigiosa sigla Franco Maria Ricci: insomma, uno straordinario e versatile homme de lettres, che di parole si è cibato tutta la vita.

Intanto, disseminati negli interstizi del suo nuovo libro, spiccano i frammenti di una visione del mondo, una “filosofia” di vita che sembra voler indicare una ricetta di leggerezza per la liberazione dal complicato e spesso terrificante caos dell’universo; e si materializza anche l’idea di cosa dovrebbe essere un “Libro”, come osserva la protagonista, quando ci dice che cosa non sia la Letteratura («Di una cosa ero certa: in qualunque cosa consistesse la letteratura aveva poco a che vedere con la maggior parte dei libri che pubblicavamo»)…

A questo proposito, i più antichi fan di Mariotti forse ricordano che un altro libro (Le rovine di Segrate, ed. Le Vespe) aveva in parte anticipato, vent’anni fa, la storia raccontata in questi Manoscritti, che mettono anche a tema l’ossessione di tutte le case editrici: la ricerca del bestseller perduto…

E non poteva mancare, in un’opera come questa, anche una “Estroduzione” finale, come per farci intendere che forse, nel Libro che raccoglie questa storia di spiriti inquieti, ci siamo dentro anche noi, con le nostre storie: “Il traffico è intenso… tutto un affollato andirivieni fra cucine, camere da letto, tinelli, specchi, balaustre, galassie, intermundia, metacosmi”…

Immerso nell’avvolgente e variopinta distesa dei volumi che arredano quasi ogni parete della sua bella casa della milanese via Soresina, Giovanni Mariotti tranquillizza subito il futuro lettore: “Un libro dove si parla di morti viventi dovrebbe far paura, ma credo che non sia il caso. Io, scrivendo, sorridevo”, dice sorridendo affabilmente; e, ricordando le parole dell’amico editore di recente scomparso: “Ormai sono pochi a sapere che cos’è la Letteratura: me lo disse Roberto Calasso [fondatore e direttore dell’Adelphi], e la frase era lusinghiera perché presupponeva che io appartenessi a quei pochi. Si sbagliava: in proposito, non avevo che idee arruffate… Solo ora, a libro pubblicato, mi accorgo che I manoscritti dei morti viventi non consiste solo in una catena di avvenimenti un po’ bizzarri, ma in una sequenza di pensieri… insomma, in un tentativo di mettere un po’ d’ordine in quell’arruffio”.

La dedica del libro alla memoria di Fabrizio Puccinelli, tuo vecchio compagno di banco al Liceo classico ‘Machiavelli’ di Lucca, e i riferimenti circostanziati a quel tuo sfortunato coetaneo lasciano intendere evidenti tratti autobiografici presenti nella tua storia…”.

Tutto quello che c’è in questo racconto, l’ho scritto io e dunque, sia pure in modo tortuoso, mi riflette; con un’eccezione: il mio nome, che è in copertina. Forse perché mi secca essere un singolo, qualcosa di anagrafico, di ridicolmente particolare, e sento che usare pseudonimi o eteronomi non risolverebbe il problema”.

In effetti, questa tua onomatofobia ha lasciato senza nomi i personaggi del tuo racconto”.

L’avversione per i nomi, l’utopia del libro in cui qualsiasi lettore trovi il racconto della propria vita si collega forse anche alla mia esperienza adolescenziale del desiderio di essere nulla. Mentre scrivevo mi tornava a mente il periodo in cui avevo scoperto il mondo dei libri e in cui scioccamente avevo confidato a mia madre, che faceva la serva per mantenermi, la mia volontà di diventare nulla, addolorandola. Ma da lì mi sembra sia derivato il mio destino: mai pensare a una carriera o a una fama, e guadagnarmi di che vivere volta per volta, cosa che incredibilmente mi è riuscita”.

E, sempre per ribadire la sua inveterata vocazione all’understatement, lo scrittore confessa: “C’è una sensazione che mi accompagna da sempre: quella di non possedere il permesso di soggiorno nella realtà. La condivido con i miei “personaggi”: fantasmi un po’ in imbarazzo, morti viventi che credono di potere ottenere il certificato di esseri reali con la violenza e il cannibalismo”.

Poi, quando viene il momento di congedarci, Giovanni Mariotti, con un gesto abituale ben calcolato, apre il suo nuovo “romanzo”, e legge: “Quella sera, tornata a casa, mi avvicinai a uno scaffale e a caso ne estrassi un libro: Il tempo ritrovato di Marcel Proust. Lo aprii e lessi queste righe che qualcuno aveva sottolineato: “Ogni lettore, nell’atto di leggere, è il lettore di sé stesso. L’opera dello scrittore è una sorta di strumento ottico che viene offerto al lettore perché possa discernere dentro di sé cose che senza il libro non avrebbe mai visto”“.

Piero Pagliano

Redazione Web