Dalla rivolta delle banlieues in Francia giungono segnali importanti per tutta l’Europa, anche perché, in pochi anni, è la terza insurrezione contro l’autorità dello Stato, impersonata dal presidente Macron: dapprima i “gilet gialli” (piccola e media borghesia) contro l’aumento dei prezzi energetici; quindi i sindacati contro l’innalzamento dell’età pensionabile; ora la ribellione dei giovani delle periferie metropolitane, di radici nordafricane.
Emergono, tra tante cause, tre crisi evidenti: la debolezza estrema dell’uomo solo al comando, nella fattispecie il presidente della Repubblica; il fallimento della politica di integrazione degli immigrati di seconda e terza generazione; l’esplodere violento della questione sociale, con la crescente diseguaglianza tra le classi.
Lo Stato debole.
Il sistema presidenziale alla francese, che doveva rafforzare le istituzioni repubblicane, ha in realtà indebolito il rapporto tra l’Autorità e la società civile. Macron, esponente della grande finanza, ha oscurato il Parlamento, le forze sociali, i corpi intermedi, ha contribuito alla scomparsa dei grandi partiti (i repubblicani – gollisti e i socialisti), come già i suoi predecessori Sarkozy e Hollande. Il risultato politico è stato l’emarginazione dell’Eliseo (con sondaggi di gradimento appena sopra il 20%), divenuto inascoltato e costretto a ricorrere a una sola strategia: l’uso massiccio della forza pubblica.
La crisi politica della Francia, la sua instabilità, diviene un problema anche per Bruxelles e deve far riflettere sulla teoria del presidenzialismo, dell’uomo solo al comando. All’Eliseo potrebbero rileggere gli interventi del Presidente Mattarella sulla Costituzione italiana e il primato della via parlamentare e del pluralismo delle istituzioni democratiche. La ricerca delle convergenze politiche e programmatiche è faticosa, ma molto più produttiva dello scontro frontale tra manifestanti e forze di polizia (e talvolta dell’esercito).
L’integrazione fallita.
La comunità nordafricana non è stata inserita pienamente nella vita sociale francese: la creazione delle banlieues, a fianco delle città urbane, ne è la dimostrazione più clamorosa. Il fenomeno “separatista” risale ai tempi di De Gaulle, ma è cresciuto nel tempo, pur con Governi di diversa estrazione. È mancato un processo politico e culturale che favorisse un’effettiva parità fra tutte le persone; anzi i movimenti di estrema destra, guidati da Marine Le Pen, hanno puntato all’Eliseo partendo da linee governative di separazione tra le etnie. Nel Paese che ha rivendicato la égalité, le due visioni della Francia continuano a scontrarsi ancora oggi: ne è plastico esempio la gara nella raccolta dei fondi (prevalgono quelli per l’agente che ha sparato, scarseggiano invece per la madre del giovane assassinato). Anche in altre nazioni europee, compresa l’Italia, c’è il rischio della logica dei quartieri-ghetto, dal nord al sud: va contrastata la teoria dello “scarto”, come non si stanca di ricordare Papa Francesco.
La questione sociale.
Negli anni del nascente sviluppo industriale (1891) un Pontefice “moderato” come Leone XIII mise in guardia la società politica ed economica dai crescenti rischi di diseguaglianze tra le classi, chiedendo con l’Enciclica “Rerum novarum” un’equa redistribuzione dei beni prodotti dalle imprese; oggi, nel capitalismo dominante dell’era tecnologica, l’ingiustizia è ancora più cresciuta e favorisce la rottura sociale.
Nella Francia di Macron il fenomeno è particolarmente diffuso. Un solo esempio, tra i tanti: a Lione il numero uno di Stellantis guadagna in un anno 19 milioni di euro, mentre i suoi dipendenti, in tutto il mondo, spesso non superano i 10-15 mila euro! È la teoria “dei diritti”, che legittima ogni rivendicazione individuale, superando il concetto classico di “limite”. Ma un grande premier, Aldo Moro, negli anni della contestazione studentesca e operaia, ricordava a tutti che una società democratica non regge senza l’equilibrio di “diritti e doveri”. Né lo Stato di diritto può trasformarsi in Stato di polizia.
Ovviamente il discorso della giustizia sociale non vale solo per Parigi ma interpella l’intera società democratica, richiamando in primo piano il ruolo equilibratore dello Stato in un’economia di mercato, avendo come riferimento il primato delle persone, di tutte le persone, senza distinzioni.
La lezione di Parigi deve certamente far riflettere l’Eliseo, ma nell’imminenza del voto europeo dev’essere di monito per le forze politiche e culturali che credono in uno sviluppo integrale e umano del Vecchio Continente.