(Mario Berardi)
La gravissima crisi dell’Ucraina avvicina i partiti della larga maggioranza al Governo, perché la sfida di Putin all’Occidente richiede una forte solidarietà europea. Ma il fuoco cova sotto la cenere: sulle sanzioni a Putin sono freddi Salvini e una parte dei Grillini, mentre nelle aule di Montecitorio l’Esecutivo è andato in minoranza alcune volte (sull’Ilva su iniziativa Pd-Pentastellati, sull’uso del danaro contante su spinta Lega-Fi, mentre ancora il Carroccio insiste nel dissenso sulle misure anti-Covid). Dopo il Quirinale sempre difficili i rapporti tra il premier Draghi e i capi-delegazione dei partiti.
Sull’inquieta coalizione incombono ora i referendum sulla giustizia e le elezioni amministrative in 970 Comuni, con 4 capoluoghi di Regione (Genova, L’Aquila, Catanzaro, Palermo) e 25 di Provincia (in Piemonte tocca a Asti, Alessandria, Cuneo). Contestualmente, per ottenere la seconda tranche dei fondi europei, il Parlamento è chiamato entro giugno a varare le riforme del fisco, del catasto e della concorrenza, mentre per la Giustizia si attenderà l’esito dei referendum (secondo i sondaggi non ci sarebbe il quorum, ossia la partecipazione della maggioranza assoluta degli elettori, anche perché la sinistra e la stessa Meloni sono freddi sull’iniziativa Lega-Radicali).
Il compito della maggioranza non è facile: alcuni media già ipotizzano una crisi a giugno, dopo le elezioni amministrative, con un voto politico anticipato in autunno, quando i parlamentari avranno superato i quattro anni e mezzo di mandato, necessari per non perdere le indennità previste dalla legge.
Il nodo politico non sciolto, ad un mese dalla Caporetto di Montecitorio sul Quirinale, riguarda il tema della solidarietà nazionale posto da Mattarella con la nascita del Governo Draghi. È una prospettiva di lunga data, vista la crisi dei partiti e delle coalizioni, o una contingenza eccezionale da superare al più presto con un voto politico degli italiani? La partita è soprattutto nelle mani di Salvini e Letta, leader della coalizione.
Il Carroccio, incalzato dalla concorrenza elettorale della Meloni, insiste sulla linea “di lotta e di governo”: una mano con Draghi, per assecondare i Governatori della Padania, l’altra con l’opposizione di Fratelli d’Italia, per frenare l’erosione di consensi. In questo modo la linea politica resta incerta, anche sulla delicatissima politica estera, nonostante i reiterati appelli di Berlusconi di scegliere il Ppe, abbandonando Marine Le Pen. Com’è immaginabile che il centro-destra, così diviso, possa affrontare la scadenza elettorale con un programma chiaro e definito e con la risolta querelle tra i leader?
Sul versante del centro-sinistra il segretario dem Letta insiste sul “fronte largo” dai centristi ai Grillini, ma viene smentito ogni giorno da Calenda e da Conte, irriducibili avversari. Soprattutto continua la crisi sia in casa pentastellata sia nell’area di Centro, con un confermato contrasto tra lo stesso Calenda (eletto segretario nazionale di Azione) e l’area di Renzi, da un lato, la crescente confusione tra i Grillini dall’altro (secondo alcuni media il fondatore Beppe Grillo penserebbe a un nuovo partito ecologista con il sindaco di Milano, Sala, e la ministra “forzista” Carfagna). A questo si aggiunga lo scontro Pd-M5S nel voto in Senato sulle vicende giudiziarie di Renzi; i Dem a suo favore (con la destra) nel conflitto di attribuzione con la Procura di Firenze sul caso Open, i Pentastellati (e Leu) contro.
In casa democratica restano pienamente aperte le questioni politiche e programmatiche aperte da Franceschini e dalla componente moderata di Base riformista: il ministro dei Beni culturali insiste nell’apertura alla Lega, per spingerla su posizioni moderate, i “centristi” dem sono dubbiosi sullo spazio alle tesi radicali sull’eutanasia e sulla discussa proposta del ddl Zan.
Con la perdurante crisi delle due coalizioni e con l’incerta ricerca del “nuovo Centro” appare discutibile la corsa al voto anticipato, soprattutto in un contesto internazionale di guerra. Ma lo stato di necessità non è sufficiente, se la politica non accoglie le ragioni di fondo dell’appello di Mattarella all’unità nazionale.