(Alessandro Crotta)

A proposito di “Storia e verità”, l’inviato Gabriele Romagnoli scriveva, anni fa su La Stampa, che “c’è la storia e c’è la memoria. Esiste un modo in cui le cose sono andate e un altro in cui le ricordiamo. La verità – continuava – spesso, ha la doppia residenza, ma noi abitiamo in una sola”. Così i ragazzi del “Trenta e dintorni” – tra questi, anche chi scrive questa memoria – pur sapendo delle attività partigiane, non percepivano, in quei giorni di aprile 1945, la sensazione della fine.

Come potevamo averla, se in quella seconda metà di aprile le uccisioni continuavano sin sulla soglia di casa? Non continuava la guerra ad avere, anche con Truman, lo stesso carattere che aveva avuto con il suo predecessore Roosevelt? Come in un film, l’epilogo della guerra, quello segnato dai fatti più che dai desideri, l’avremmo saputo poi a cose fatte. Anche se in quella fine aprile del ’45 le giornate erano quasi estive, la sensazione che noi ragazzi avevamo nei confronti degli aspetti bellici che riguardavano l’eporediese era molto simile a quella che si ha in corpo prima che si scateni una tempesta. Paura istintiva e animalesca: tuttavia ben diversa, da quella angosciosa e consapevole degli adulti.

Fu venerdì 27 di aprile che ebbi, per la prima volta, la sensazione che la fine della guerra fosse ormai dietro l’uscio. Non erano ancora le undici che – in quel tratto di via Arduino compreso tra piazza di Città e quella che allora era via Palma – da un gruppetto di persone iniziò uno sgolarsi gioioso e liberatorio che parve segnare la fine di un incubo: “è finita, la guerra è finita”.

Intanto, in cima a via Palma, quattro o cinque giovanotti dal piglio risoluto stavano scendendo; giunti a mezza via intonarono con quanto fiato avevano in gola, “Bandiera rossa la trionferà…”. Incuriosite da cotanto canto, alcune signore si affacciarono dai balconcini dei loro appartamenti per unire le loro voci a quelle dei baldi giovanotti. Quelle parole che avrebbero dovuto seguire le prime, non seguirono: un’improvvisa sparatoria proveniente da chissà dove, gliele soffocarono in gola.

Una delle signore del terzo piano fu ferita a una gamba. Mentre i negozi abbassavano le serrande, quell’altro gruppetto, quello degli inneggianti ”è finita, la guerra è finita”, imboccò l’allora sottopassaggio di quell’unica traversa di via Palma e si disperse in via Peana.

Poco dopo la zona divenne deserta e tale rimase per il resto del giorno. Nel frattempo – si seppe poi – mentre le brigate partigiane occupavano i dintorni della cittadina le truppe tedesche – ancora armate di tutto punto – continuavano ad affluire in città accampandosi anche nei giardini pubblici. I rischi di uno scontro con i partigiani appariva pressoché inevitabile. Ma una volta tanto la ragione prevalse.

Con la mediazione di S.E. Mons. Vescovo (Paolo Rostagno), tra il comandante dei partigiani Alimiro (Mario Pelizzari) e il generale tedesco Picker fu concordata una tregua. Il 2 maggio furono definite le modalità di resa delle truppe tedesche e così – miracolosamente – per la città e per tutti venne evitata l’ultima follia. In municipio si insediò il Comitato di Liberazione Nazionale. Il giorno dopo, giovedì 3 maggio, le truppe tedesche si arrendevano ai partigiani e agli alleati.

Al canto di “Fischia il vento / soffia la bufera / scarpe rotte eppur bisogna andar” le formazioni partigiane conclusero ciò che per la storia di casa nostra sarebbe poi stato ricordato come la fine della Seconda Guerra Mondiale. Successivamente, come sempre al termine di ogni conflitto – e ciò, da che mondo è mondo – nel segno del “Vae victis” (“Guai ai vinti”), ne iniziò un altro: quello della resa dei conti. I vinti con tutte le loro demoniache nefandezze da un lato, i vincitori con le loro virtù dall’altro…

Il 25 Aprile si commemora l’ennesimo anniversario della Liberazione: quale migliore occasione per esprimere, ancora una volta, la nostra riconoscenza e gratitudine, non solo a quei “Banditen” dalle scarpe rotte che operarono in zona, ma anche a quegli uomini delle Forze Militari Alleate che furono determinanti per il nostro “Freedom-Day”.

Infine, perché, mi chiedo, non fare di questo significativo giorno, il giorno della riconciliazione con tutti quelli i quali, in buona fede, combatterono per la Patria? Il buonsenso e soprattutto la ragione lo vorrebbero. E in ultimo quale sarà, ci si chiede, il giudizio storico su una fattiva collaborazione a carattere bellico intercorsa (negli ultimi giorni di guerra sul fronte nord occidentale) tra partigiani ed esercito della Repubblica Sociale Italiana volta a respingere le truppe francesi all’interno dei confini della loro nazione?

IVREA_SHERMAN