(Mario Berardi)
Sulla strada di Mario Draghi per Palazzo Chigi è scoppiata la bomba della crisi pentastellata: Beppe Grillo ha fermato il referendum degli iscritti sulla piattaforma Rousseau per evitare lo scontro aperto tra “governativi” (Di Maio) e “movimentisti” (Di Battista): pronti a ruoli di ministro i primi, disponibili al massimo all’astensione i “ribelli”. Le due anime del M5S non sono una sorpresa e hanno ostacolato la stessa vita del Governo Conte.
Peraltro l’europeismo dei grillini è un fatto recente, sorto con la nascita della coalizione giallo-rossa ed espresso al Parlamento di Strasburgo con il voto determinante degli europarlamentari pentastellati alla presidenza UE di Ursula von der Leyen. Invece nel 2018, dopo il voto, lo stesso Di Maio corse in aiuto di Salvini che voleva l’euroscettico professor Savona al ministero dell’Economia: allora chiese, con parole ridicole, l’empeachement di Sergio Mattarella, “colpevole” di aver difeso i trattati internazionali con il “no” al nemico dell’euro.
Secondo i politologi, Beppe Grillo vorrebbe oggi il sì a Draghi per non isolare il Movimento da lui fondato, ma con forti garanzie sul programma e sui ministeri.
Sull’altro fronte “sovranista”, quello della Lega, il cammino di conversione verso il super-europeista Draghi è stato più rapido: Salvini si è arreso alla linea moderata espressa dal vice-segretario Giorgetti, da sempre contrario all’alleanza in Europa con la destra estrema di Marine Le Pen e portavoce degli interessi dei ceti produttivi della “Padania”. A Strasburgo la Lega ha rotto con i suoi alleati e ha votato il Recovery Fund, allineandosi alla grande maggioranza degli euro-deputati.
L’incertezza grillina e l’adesione (non gradita) della Lega hanno messo in difficoltà il Pd. Tuttavia il segretario Zingaretti ha confermato il pieno sostegno alla linea Mattarella-Draghi per evitare una gravissima crisi istituzionale. Nei Dem permangono due linee, quella maggioritaria del Segretario, che punta sull’alleanza Pd-M5S-Leu, e quella minoritaria (Marcucci), che vorrebbe ricucire con Matteo Renzi.
Nel centro-destra permane l’opposizione di Giorgia Meloni (che potrebbe tuttavia astenersi) mentre è confermato il sì di Berlusconi (come premier indicò Draghi alla guida della BCE); travagliata infine anche la sinistra di Leu, divisa tra il sì “governativo” di Speranza e l’astensione di Fratojanni.
Negli incontri con i partiti Draghi è stato molto attento sui temi “divisivi” (Mes, prescrizione dei reati, immigrazione, ponte sullo stretto…), lasciati ai margini per puntare sulle tre crisi indicate da Mattarella: lotta al Covid con il piano vaccinazioni, recessione economica, disagio sociale; contestualmente ha ribadito l’urgenza di avviare il Recovery Fund, coniugando sviluppo produttivo e coesione sociale (ha confermato ai grillini il reddito di cittadinanza e il dicastero per la transizione ecologica; prevista anche una particolare attenzione alla scuola).
Nell’incontro con le parti sociali ha ribadito la linea della concertazione, anche per risolvere il grosso nodo dei licenziamenti (il blocco scade a fine marzo): i sindacati ne chiedono la proroga, la Confindustria la revoca, salvo pochi settori. Significativo anche l’incontro con le associazioni di volontariato e di impegno ecologico.
A livello mondiale la scelta di Draghi è stata ben accolta; analogamente in Italia: secondo un sondaggio della SWG due elettori su tre lo sostengono, mentre a livello partitico la caduta del Governo Conte ha indebolito il centro-sinistra a favore del centro-destra, che sfiora il 50%; sempre ferma al 3% Italia Viva, nonostante la vasta platea mediatica (stampa e tv) garantita a Matteo Renzi (gli stessi elettori erano contrari a una crisi al buio, temendo la paralisi).
Oggi l’insuccesso di Draghi sarebbe drammatico per il Paese, anzitutto perché sarebbe impossibile presentare all’UE i piani per ottenere i 209 miliardi; contestualmente verrebbe rallentata, dal vuoto di potere istituzionale, la campagna per le vaccinazioni, essenziale per battere la pandemia. Gli interessi (legittimi) di partito debbono lasciare il campo al “bene comune” di sessanta milioni di persone.