(Michele Curnis)
La rassegna dei principi negligenti del Purgatorio inizia con un imperatore (Rodolfo I d’Asburgo) e termina con un feudatario imperiale (Guglielmo VII di Monferrato), che è anche l’unico personaggio italiano di tutto il catalogo. Agli estremi della successione, la postura del personaggio ne spiega la funzione in rapporto all’altro: se il primo, Rodolfo, è «colui che più siede alto» (Purg. VII 91), l’ultimo, Guglielmo, è «quel che più basso tra costor s’atterra» (133).
Non sono in molti ad avere osservato questa sorta di didascalia scenografica a distanza, determinante per capire le ragioni dell’inserzione di Guglielmo. Commentando il Purgatorio, nel 1936 Ernesto Trucchi definì assai bene «questo semplice Marchese, che Dante colloca più in basso di tutti, essendo men alto in dignità e potenza, ma guardando suso, verso l’Impera-tore, come fedel Ghibellino, che dinanzi alla dignità imperiale non siede, ma s’atterra. Questo personaggio permette ancora una volta a Dante di mostrare le discordie comunali che affliggevan l’Italia per l’assenza dell’Imperatore».
Gli antichi commentatori di Dante solitamente prendevano avvio dal nome di Guglielmo per spiegare il pianto di Monferrato e Canavese con cui il canto si chiude, senza però far parola della geografia politica del Canavese, toponimo dalle coordinate sconosciute. Anzi, se la maggior parte degli antichi interpreti non dice nulla di questa terra, è anche perché molti copisti non ne avevano trascritto correttamente il nome.
Alcuni tra i manoscritti più autorevoli della Commedia recano infatti, al posto della lezione corretta «Canavese», le varianti erronee «el nauese», «el nauarrese», «el calaurese», «’l carrarese», oltre a quella fonetico-formale «el canaveise». Anche uno scrutinio parziale testimonia, insomma, che molti copisti e lettori confondessero ‘Canavese’ con ‘navarrese’, ‘novarese’, ‘calabrese’ o ‘carrarese’, perché non comprendevano il secondo toponimo del verso (a differenza del primo, ‘Monferrato’, che nella tradizione manoscritta non dà luogo a nessun errore).
Il primo commentatore dantesco a preoccuparsi di definire il Canavese è Benvenuto da Imola, tra 1375 e 1380: «Contrata est contermina Montiferrato, quae clauditur a duobus brachiis fluminis, quod dicitur Dura, a tertia parte clauditur Pado, a quarta ab Alpibus, et habet forte ducenta castella: quae est etiam valde fertilis» (“È una regione confinante con il Monferrato, racchiusa tra due rami di un fiume che si chiama Dora, dal Po sul terzo versante e dalle Alpi sul quarto, e vanta forse duecento borghi fortificati, oltre a essere molto fertile”).
La descrizione è interessante, anche per la sua ambiguità, prima di tutto perché presenta il Canavese come una regione di forma quadrangolare (è possibile tentare una corrispondenza di massima tra gli elementi di confine e i punti cardinali: a ovest il Monferrato, a est la Dora, a sud il Po e a nord le Alpi). Ma come intendere “i due bracci” del fiume Dora? Se Benvenuto (o meglio, la sua fonte) si stava riferendo alla Dora Baltea e alla Dora Riparia, allora i confini del Canavese giungerebbero fino a Torino, includendo parte della Val di Susa. Spesso la tradizione letteraria ha sovrapposto due fiumi distinti e autonomi, la cui congiunzione risale addirittura a Plinio il Vecchio («Durias duas», si legge in Naturalis historia, III 47) e prosegue fino alla «gemina Dora» del manzoniano Marzo 1821. Se invece la duplicazione del nome della Dora è un’imprecisione e va corretta con il ricorso a un altro fiume, è probabile che il modello di Benvenuto alludesse al torrente Orco (Eva d’òr, in canavesano, da cui forse la confusione), affluente del Po presso Chivasso.
C’è anche una terza possibilità, che giustificherebbe l’esattezza delle indicazioni di Benvenuto: la Dora Baltea nasce in Valle d’Aosta dalla confluenza presso Entrèves di due fiumi che hanno lo stesso nome, la Dora di Ferret e la Dora di Vény. È poco verisimile (per non dire impossibile) che la sconosciuta fonte di Benvenuto disponesse di informazioni tanto dettagliate sui fiumi dell’alta Italia, ma almeno un punto è certo: la Dura citata nel commento al Purgatorio deve essere identificata (almeno) con la Dora Baltea. Del resto, la menzione del Po quale elemento di confine a sud e il numero elevatissimo dei borghi fortificati o “castelli” che Benvenuto ascrive a questa regione (duecento) inducono a credere che nel suo commento sopravvivesse una definizione geografica arcaica del Canavese, coincidente più con la parte settentrionale dell’antica marca arduinica dei secoli X-XI, che non con la “zona dei conti del Canavese”, eredi soltanto in parte di quel territorio.
Che la nozione geografica di Canavese circolante in Italia alla metà del Trecento potesse provenire da fonti più antiche, ormai anacronistiche, appare chiaro dal confronto con la prima monografia storica su questa regione.
Fiumi e castelli costituiscono i parametri con cui anche un altro scrittore di quel tempo inizia la sua descrizione del Canavese: Pietro Azario, che suggella il De statu Canepicii liber il 4 gennaio 1363. In apertura Azario elenca i toponimi delle località controllate dalle varie famiglie nobili del Canavese, distinguendo accuratamente tra burgus e castrum: se il primo termine individua un piccolo centro abitato, il secondo si usa nell’accezione di borgo fortificato o presidio militare (spesso, ma non sempre, associato a un burgus). I castra menzionati da Azario sono 37 (sebbene non si possa computare un numero preciso, perché nella regione di Brosso ne sono presenti vari: «Brozium castra plura cum valle»).
In ogni caso, il numero dei castelli canavesani indicato da Azario è di gran lunga inferiore a quello di Benvenuto. È evidente, pertanto, che nei commenti alla Commedia fossero confluite informazioni politico-territoriali generiche e ormai invecchiate.
Dopo aver fornito le coordinate geografiche del Canavese, Azario inizia a rappresentarne retoricamente la bellicosità intestina, prendendo spunto dalle caratteristiche naturali dei due fiumi principali, l’Orco e la Dora Baltea: «sicuti a principio dictum Canepicium semper discordiam habuit et habet in partialitatis hodio, videlicet quia una pars Guelfa et alia Gibellina, sic et ipsi duo fluvii ex toto discordant in comitatu illo; et est mirabile, cum in ipsa planicie unus multum non distet ab alio» (“come abbiamo detto sin dall’inizio, il Canavese fu, ed è, sempre immerso nella discordia e nell’odio nato da interessi particolari, ovviamente perché una parte è guelfa e l’altra ghibellina. Allo stesso modo, quegli stessi due fiumi sono in tutto discordi nel territorio del contato; fatto straordinario, perché in quella pianura non distano neppure molto l’uno dall’altro”). L’Orco e la Dora, proprio come gli abitanti del Canavese, litigano su tutto e non sono mai d’accordo, rappresentando una completa opposizione geografica a cominciare dal genere dei loro nomi, l’uno maschile e l’altro femminile.
Le famiglie aristocratiche del Canavese si combattono tra loro – prosegue Azario – con la stessa tenacia e ferocia con cui sono in guerra cristiani e saraceni, e sarebbe molto lungo ricostruire le origini di questa contesa. Un evento specifico è comunque ricordato come possibile scatenante dell’astio latente: l’appoggio dato da Guglielmo VII di Monferrato ai conti di Valperga nel 1268 contro i conti di San Martino, che più tardi si sarebbero alleati ai Savoia-Acaia.
Riscontrare alla metà del Trecento l’origine della guerra del Canavese nelle ambizioni diplomatiche e strategiche di Guglielmo significa aderire alla sintetica argomentazione che Dante offre nel Purgatorio per spiegare l’attuale pianto di quella terra. Come spesso accade, nella poesia dantesca era racchiuso un giudizio, implicito e profetico, che la cronaca storica avrebbe confermato.