Finita l’estate di San Martino è arrivata la nebbia. È arrivata cogliendo di sorpresa chi si trova a mettere fuori il becco al mattino presto. Chi invece resta a casa se la gode al caldo, sornione, da dietro i vetri della finestra. Le galline dal pollaio, malgrado apra loro la porta davanti ad una bella ciotola di mangime, complice il buio e la nebbia, non mettono il becco fuori. La Penny-cane esce giusto un attimo.

La nebbia col suo carico di umidità appanna anche il parabrezza dell’auto. Un colpo di tergicristallo non basta per schiarire la vista; tutto resta in qualche modo attutito intorno a noi. Pure i pedoni che attraversano la strada! Torme di lavoratori e studenti si muovono tra gli alberi che iniziano a perdere il fogliame, ma sembrano tutti un po’ fantasmi che si aggirano tra le coltri brumose. Con la nebbia anche la strada e il parcheggio sembrano perfetti, non vedi le buche e i rallentisseur che ti fanno sobbalzare quando ci passi sopra ai 35 all’ora.

La nebbia nasconde i lineamenti della gente, e cade l’obbligo civile del saluto perché non sei mai certo di rivolgerti alla persona giusta. Va da sé che la nebbia permette più introspezione alle persone che sono fuori casa.

Ci si confronta con le nuove realtà in avvicinamento, del tipo: è quasi di nuovo Natale, il tempo è volato via, sta per arrivare l’inverno, sembrava solo ieri che si moriva di caldo e adesso senti che freddo, oppure più prosaicamente: ho chiuso la porta? Ho spento la luce? Ho abbassato il termostato? E altre innumerevoli amenità del pensiero a bagno nella nebbia.

Lo scenario che costella questi pensieri è quello dei grandi alberi. Masse oscure che si stagliano nella foschia e con la loro massiccia presenza sembrano far la guardia a chi transita sui viali umidi del primo mattino, puntando sull’edicola illuminata per leggere gli strilloni con le ultime agghiaccianti notizie di cronaca e di guerra. Tutto è più ovattato, meno immediato, ci sentiamo quasi schermati dalla realtà che ci circonda. Solo dalle 7,30 sentiamo l’immanente presenza del sole che inizia ad illuminare quell’oscurità, a sciogliere la nebbia, a scaldare le ossa intorpidite, a rendere tutte le immagini più nitide, più veloci, come se il macchinista del cinematografo stia per mettere finalmente a fuoco il film che sta proiettando.

Un’aura di luce prende il posto del buio notturno e della nebbia. E la realtà prende le sue consuete forme diurne, rapide, automatiche, forse anche efficienti. Accidenti! L’auto davanti a me mi ha fregato il parcheggio. Ne cerco e ne trovo un altro tra la nebbia che tenta di dissolversi. Dietro la ringhiera rossa del Lungo Dora si erge ancora un muro di nebbia che cela la vista sull’altra riva del fiume. È come se Ivrea finisse lì, come se il fiume fosse un entità esterna smisurata, dello stesso colore della nebbia e del cielo, quel grigio luminoso che fa pensare ad una sorta di limbo dello sguardo rotto solo dal gorgoglio delle acque cerulee.

Solo più tardi dalle finestre della biblioteca i maestosi alberi del parco si stagliano alla luce di un pallido sole novembrino.