Per via delle immediatezze del Carnevale – che qui come forse in nessun altro luogo è la più seria delle questioni e che è partito già dal 6 gennaio –, Ivrea è una città in cui gli addobbi natalizi spariscono subito (per far spazio a quelli carnevaleschi, appunto). Ma nel resto del Canavese serpeggia ormai la curiosa costumanza di non aver fretta alcuna nello smontare alberi, luminarie e quant’altro subito dopo l’Epifania, che, come ognun sa, tutte le feste dovrebbe portarsi via!
Pensiamo poi alle abitazioni private, i cui addobbi esterni restano spesso immutati per settimane dal Natale! Naturalmente ci sono delle eccezioni (in tutti i sensi: mio figlio l’anno scorso smontò l’albero di Natale nelle vacanze di Pasqua), ma se una rondine non fa primavera, la situazione appare comunque ben radicata. Io stesso, ad esempio, disfatto l’albero intorno al 10 gennaio, solo martedì scorso ho smontato gli addobbi interni.
Questi addobbi interni sono complicatissimi: nel mio caso, tralci di pino finto a cui avevo attorcigliato filamenti di micro lampadine sbarluccicanti; non pago di ciò, vi avevo appeso cristalli di vecchi lampadari, il tutto assicurato col fil di ferro ad un bastone reggente, a sua volta fissato agli architravi delle due porte della sala. Per imballare il tutto ho dovuto utilizzare una borsa di plastica dalle ragguardevoli dimensioni che ho collocato nel ripostiglio del sottotetto: praticamente sembra di avere una mongolfiera che troneggia in mezzo agli scatoloni accumulati negli anni, di cui non si sa neppure più che cosa contengano.
Girando qua e là per le stanze, ieri ho ancora ritrovato un micropresepe in ceramica su una mensola e un portacandela dalle vaghe forme paranatalizie. Convinto di aver ritirato davvero tutto, ho poi realizzando con sconcerto la più grande dimenticanza: davanti alla porta d’ingresso della casa, campeggiava ancora un mazzo di rami di vischio con le palline rosse appese, e altre ikebanate. Non ho avuto il coraggio di toglierlo, perché tutto sommato sta bene e poi il vischio è vero ed è ancora molto bello.
Che poi, si scopre leggendo qua, il vischio è una pianta parassita che ha come frutti bacche sferiche o ovoidi, bianche o giallastre translucide, contenenti semi di 5–6 mm, appiattiti sui lati e immersi in una polpa gelatinosa e vischiosa. Se andiamo oltre, l’inquietudine sale ancora di più: secondo gli espertissimi F. Stirpe, K. Sandvig e S. Olsnes (autori dello studio “Action of viscumin, a toxic lectin from mistletoe, on cells in culture”, apparso in “The Journal of Biological Chemistry”, vol. 257, n. 22, 25 novembre 1982), “in forma concentrata il vischio è potenzialmente letale e le persone possono ammalarsi gravemente mangiandone le bacche.
Gli estratti concentrati possono causare un’intossicazione importante, che può manifestarsi con diplopia, midriasi, ipotensione, confusione mentale, allucinazioni, convulsioni. Dal vischio è stata isolata la lectina tossica viscumina, una proteina citotossica (chiamata proteina inattivante ribosoma, o RIP) che si lega ai residui di galattosio delle glicoproteine sulla superficie cellulare e può essere internalizzata dall’endocitosi. La viscumina inibisce fortemente la sintesi proteica inattivando la subunità ribosomiale 60 Svedberg”.
Alla faccia del caciocavallo e della mitologia norrena!