L’altro giorno mi sono dovuto recare in Tribunale ad Ivrea con un amico. Erano le ore della tarda mattinata e il sole risplendeva nel suo massimo vigore: la città era come un lucertolone sdraiato ai piedi delle montagne, ancora spolverate di neve dalle ultime precipitazioni.
Incurante di aver addosso tutte le chiavi e le monetine possibili e immaginabili, mi sono presentato con il numero dell’appuntamento all’ingresso, che io non ricordavo più che fosse identico a quello di un aeroporto, vale a dire con le stesse procedure di sicurezza per il check-in. Comunque, posato lo zaino nella cassetta dello scanner, mi sono svuotato le tasche delle chiavi di casa, dell’auto e 4 euro e 75 centesimi distribuiti nelle quattro tasche di giacca e pantaloni. Ciononostante, appena attraversato il metaldetector questo si mette a suonare.
Torno indietro e mi levo l’orologio. Riattraverso il portale e quello di nuovo suona. Chiedo se devo levare gli occhiali e gli addetti alla sicurezza mi dicono di no. Nel frattempo la coda dietro di me si ingrossa. Nella mia mente mi chiedo cosa di metallico io possa avere ancora addosso, ma non mi viene sovviene nulla… non ho protesi metalliche al mio interno, nemmeno chiodi di vecchie fratture. Non capisco. Il sorvegliante mi fa ripassare e quell’aggeggio infernale suona.
Allora scopro che nella tasca interna della giacca avevo il telefono che prontamente metto nella cassetta. Mentre tutti osservano divertiti, l’addetto passa alla perquisizione: alzo le braccia e devo divaricare le gambe (come nei film), ma non si trova nulla. Allora mi fa ripassare e l’affare suona come non mai. Nel frattempo l’altro addetto allo scanner della borsa mi dice che ho una chiave enorme nello zaino. In effetti è la chiave del vecchio portoncino, che una volta a casa ho poi pesato nella bilancia della farina e risulta di ben un ettogrammo. Dice che non aveva mai visto una chiave così grossa.
A quel punto mi viene in mente che porto le bretelle e così torno indietro e le scopro davanti agli addetti, però dico anche di non poterle levare altrimenti i pantaloni mi cascherebbero (come in effetti mi successe in aeroporto qualche anno fa, in occasione dell’ultimo volo che ho effettuato, quando rischiai un incriminazione per offesa al pubblico pudore). Controllate le bretelle con le 4 pinze metalliche belle luccicanti, finalmente mi dan l’assenso al passaggio malgrado il coso continui a suonare.
Attendo che anche il mio amico espleti il rito d’entrata. E anche per lui ci vuole del tempo. Gironzolo sul marciapiede antistante l’edificio, guardo le scale esterne dipinte di rosso che si stagliano sul grigio dell’edificio, leggo il foglio dell’appuntamento per sapere dove andare, guardo l’orologio, rispondo ad un whatsapp e controllo la mail. Finalmente lui esce con in mano la cintura adornata di una vistosa fibbia in metallo massiccio: “Porta pazienza: avevo il cinturone alla Tex Willer!”.