(Mario Berardi)
Un anno fa, dopo la caduta del Governo Conte-bis, il presidente Mattarella indicò Draghi a Palazzo Chigi per tre emergenze: la lotta alla pandemia, la ripresa economica con l’impiego dei fondi europei, la crisi politica. Oggi, pur in condizioni diverse, il panorama delle priorità resta immutato: la variante Omicron rilancia il piano delle vaccinazioni e pone, in particolare, la tutela della scuola e delle sue insostituibili funzioni; sul piano economico c’è un rallentamento della ripresa mentre vanno continuate le riforme previste dal piano europeo di ripresa e resilienza (anche per non perdere le cospicue sovvenzioni); sul piano politico siamo ancora all’anno zero: a una settimana dal voto per il Quirinale le forze politiche non si sono incontrate per delineare un’intesa super-partes.
Permane dunque la situazione eccezionale indicata da Mattarella: questo induce alcuni commentatori a riproporre lo status-quo, ovvero la conferma degli attuali inquilini del Quirinale e di Palazzo Chigi, superando le legittime obiezioni, personali e giuridiche, dello stesso Mattarella. Questa analisi, per taluni, nasce dall’esigenza di evitare il salto nel buio, con una inestricabile crisi di governo o con le urne politiche in piena pandemia, con la paralisi legislativa e un’ulteriore frammentazione del tessuto politico e sociale.
In primo piano la centralità del Governo di larga convergenza, non essendoci in Parlamento maggioranze alternative: alla Camera prevale il centro-sinistra, al Senato il centro-destra. Non può esserci quindi un voto per il Quirinale che prescinda dal quadro politico e generale, perché una rottura sul Colle si espanderebbe a tutti i livelli, nella linea della ingovernabilità. Per questo la ricerca dell’intesa appare essenziale, anche nell’ipotesi di una definitiva indisponibilità del Presidente della Repubblica a seguire l’esempio dirimente di Napolitano.
Per il voto dei mille grandi elettori sono apertamente in campo due candidature: Berlusconi e Draghi. Il leader di Forza Italia esprime una posizione “divisiva”: mai un capo-partito è stato eletto al Quirinale; pesa tra l’altro la sentenza passata in giudicato per frode fiscale e il permanere di altri procedimenti; il centro-destra lo appoggia con freddezza, il centro-sinistra è sulle barricate e anche i centristi sono freddi: dichiarazioni critiche sono state espresse da Rosato, capogruppo dei Renziani, e dal leader di Azione Calenda; c’è poi il sospetto, avanzato da “La Stampa”, di una clientelare corsa al sì di singoli parlamentari. In concreto una candidatura di rottura delle convergenze politiche, una pietra tombale sul quadro etico-sociale designato da Sergio Mattarella.
Su Draghi c’è il no di Lega e Forza Italia, che lo confermano a Palazzo Chigi, e il sì pesante di Giorgia Meloni che chiede elezioni anticipate; contrari, a maggioranza, i pentastellati, mentre il Pd è in larga parte perplesso sull’abbandono della Presidenza del Consiglio, nel timore del vuoto politico. Non ha giovato all’ex Presidente della BCE l’endorsement del leghista Giorgetti, che lo ha proposto al Quirinale come scelta semi-presidenziale. Sinora, anche nei referendum, ogni prospettiva presidenzialistica è stata respinta.
Non mancano tuttavia nella vita politica e nella società civile personalità in grado di collocarsi super-partes, come esige la Carta costituzionale (il “Corriere” ha indicato, tra gli altri, il fondatore della Comunità di S. Egidio, il prof. Andrea Riccardi, già ministro nel Governo Monti).
Il nodo va sciolto dalle forze politiche (e dai grandi elettori) rispondendo a una domanda di fondo: il voto per il Colle può essere un campo di battaglia… da nuovo Vietnam, oppure il bene del Paese e della Repubblica deve spingere tutti, leader e peones, a privilegiare quello che unisce, superando le pur legittime divisioni? In altre occasioni, pensiamo la lotta al terrorismo, la politica è stata all’altezza.