Delle tre parabole contenute nel capitolo 15 del Vangelo secondo Luca (la pecora smarrita, la dracma perduta e il figlio prodigo) la terza è quella che ha avuto maggiore notorietà: ha ispirato opere d’arte, prodotto libri, avviato studi approfonditi.

Credo che il successo della parabola del figlio prodigo sia dovuto al fatto che è la più vicina all’umana sensibilità: l’esperienza della relazione padre-figlio appartiene a quel patrimonio del cuore che è la vera ricchezza della nostra vita.

La parabola del figlio che “pretende” e del padre che “attende” mette a fuoco due atteggiamenti opposti, esprimibili con due verbi uguali e contrari. Pretendere e attendere hanno la comune origine nel verbo tendere. Quando qualcosa ci interessa, tendiamo verso quell’obiettivo, quella meta, quel traguardo. Cerchiamo di raggiungerlo ad ogni costo, senza badare al sacrificio. Tuttavia, pre-tendere è ben diverso da at-tendere!

Col primo atteggiamento (“Padre, dammi la parte di beni che mi spetta“) il figlio della parabola tende verso il padre, mettendo al centro il proprio io e le sue voglie. Dall’allontanamento del figlio fino al ritorno a casa, il Padre mantiene un altro comportamento: attende il figlio (“quand’era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro“). Il padre tende verso di lui con un’inesauribile apertura di mente e di cuore, perché è sempre stato pronto a riaccoglierlo in qualunque istante, senza per questo forzare la sua libertà.

Il Dio rivelato da Gesù Cristo è il Dio dell’attesa: il suo io tende verso il tu di ogni persona, con l’assoluta gratuità di chi mette da parte se stesso per fare spazio all’altro. “Attende, Domine, et miserere“: le prime parole di un canto gregoriano caratteristico della Quaresima ci sollecitano a invocare il Padre, perché ancora manifesti la sua volontà di tendere verso di noi, nonostante i nostri fallimenti. La parabola del figlio che pretende e del padre che attende è un esame di coscienza completo, grazie al quale possiamo riesaminare le nostre relazioni con Dio e con il prossimo.

Quante volte, sia con Dio sia con il prossimo … pretendiamo? Il segreto della conversione sta nell’imparare l’arte di attendere, per vivere le nostre relazioni con la carità del Padre, che si è svelata a noi nell’atteggiamento di Gesù Cristo, colui che “accoglie i peccatori e mangia con loro“. Davvero, come scriveva la Serva di Dio Luisa Margherita Claret de la Touche: “Il Cuore di Gesù è l’Amore Infinito umanizzato“.

Lc 15, 1-3. 11-32.

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».