(Riccardo Lizier)
IVREA – Alessandro Crotta ci sottopone un vecchio scritto del suo amico fraterno Riccardo Lizier, personaggio di assoluto rilievo, scomparso nel 2012: a Ivrea lo ricordano in tanti come operaio, sindacalista, impegnato in politica e nel volontariato, e in anni più tardi cooperante nel Terzo Mondo. La testimonianza che proponiamo qui è relativo al suo incontro, piuttosto sorprendente, con Camillo Olivetti, avvenuto il 3-4 agosto 1939.
Ritengo che a qualcuno che ha avuto rapporti diretti con l’ingegner Camillo, e forse anche chi non l’avesse mai visto o conosciuto, possa interessare un piccolissimo episodio che ha avuto e ha nella mia vita un posto insostituibile e decisivo.
Di ritorno dalla colonia di Saint Jacques il 3 agosto con i compagni di scuola del Cfm (Centro formazione meccanini) Olivetti, dove ero entrato il 24 gennaio di quell’anno 1939, non avevo i soldi per andare a casa. Una serie di circostanze negative avevano travolto economicamente la mia famiglia, e certamente nulla poteva arrivarmi da quella società che si era fortunatamente, con la mia venuta ad Ivrea, tolta un peso.
La corrierona si era fermata davanti casa Molinario per una grande festa di parenti, baci, valigie: “come sei bello nero… sembri un altro…”. Dieci minuti dopo, qualcuno attardato e frettoloso mi saluta con quel certo sforzo di chi è tanto occupato o di chi ti ha sopportato per troppo tempo. Rimango solo con il mio sacco veloce in spalle, il sole a picco, da poco sono passate le 16.
La città deserta, per me non era arrivato nessuno e Pordenone stava lontana. Passo alla portineria: “ma in Ditta non vi è nessuno”. L’ingegner Camillo? “Ah! lui sì, è su al Convento ma…”. Rivedo la grande pianta, al fondo della prima parte nuova, salgo al Convento, tiro la campanella e viene un anziano della casa. Alla presentazione crede poco, anche perché visibilmente c’era ben poco da credere. Lascia il cancello chiuso e di lì a qualche minuto arriva con un nero cappello, coperta sulle spalle e bastone, un piccolo vecchio che proprio per l’altezza poteva mettermi in migliori condizioni (i miei 16 anni valevano mt. 1,45…).
Ripeto, non senza impazienza, la mia brevissima storiella. Al termine, puntandomi il dito con aria molto significativa accompagnata da una vocina stridula di maestria acida, quasi arrabbiata: “Se mi racconti una bugia me la paghi”.
Sorpreso dal tono e dalla piega presa dall’incontro, con quel cancello ancora chiuso… Con una patente di possibile zingaro bugiardo, senza rendersi conto che l’aspetto di questo ragazzaccio non poteva ispirare altro, devo aver reagito in una forma alquanto brusca, perché di colpo aprì il cancello, mi richiamò e aggiunse: “avevo detto – ora tu insisti, ed io ti faccio entrare”. Mi fece strada, a piccoli passettini ballonzolanti, mi lasciò apparentemente in completa libertà. Dopo avermi detto che non era prudente partire per Pordenone di sera, sui treni di notte.
Ripresi a parlare. Il mio fu un discorso lunghissimo, interrotto da brevissime sue domande e precisazioni. Continuai anche durante la cena e raccontai ogni particolare della mia famiglia lontana, del posto di lavoro e scuola, dei compagni e della dolorosissima esperienza del collegio Artigianelli (di allora). Partecipava così bene alle mie cose che non riuscivo più a stare zitto. Rise più volte, ebbe lunghi momenti cupi e stranamente preoccupati. Fece chiamare un’autista, sentii ordini per Milano, scrisse velocemente parecchi biglietti, ma non perse mai l’occasione di quel ”continua”, quasi preoccupato di perdere il filo e ch’io potessi dimenticare qualcosa. Venne la notte molto presto e contento di avermi visto divorare una cena magnifica, mi accompagnò a dormire e mi diede un bacio sulla fronte, poi la buonanotte. Stranamente ho trovato la cosa logica, io che non ricordavo da parecchi anni di aver avuto un simile saluto.
Il mattino dopo è venuto a battere la porta, l’uomo di casa, dicendo: “l’ingegner Camillo aspetta”. Pochi minuti dopo la colazione con lui, informatosi brevemente sulla notte, era apparentemente molto triste. Si rimise la coperta a spalle, il cappello nero, prese il bastone e con quell’“andiamo” divenutomi famigliare, attraversammo il cortiletto, la discesa, brevissima sosta alla pianta guardata con tanta tenerezza come e meglio del saluto della sera.
Non disse nulla sino alla stazione. La gente in coda si spostò subito, ma lui disse che in tutte le nazioni civili tutti stanno in coda, quindi era un dovere e con moto brusco ordinò agli ossequianti di rimettersi… in regola. Prese un biglietto tenendomi vicino, mostrandomi come si facevano queste operazioni; andata e ritorno, valido 24 giorni, classe 3a. Indicò un taschino dei pantaloni adatto a tener custodito il biglietto del treno e tolto di tasca il portafoglio mi diede 500 lire (guadagnavo al Cfm 45 centesimi l’ora) e scrisse velocemente su un biglietto da visita. “Ecco, tieni, con questo potrai, se ne sarà la necessità, rivolgerti all’agenzia di Milano o di Venezia; e ricordati di usare queste cose in base a quello che avrai bisogno, né più né meno. Solo se ti necessiterà, hai capito?”
Fedele al comando, ritornai 24 giorni dopo con le mie 500 lire e il bigliettino da visita. Stupito di vedermi: il cancello si era aperto subito e l’uomo della casa mi aveva fatto passare immediatamente, disse di tenere tutto. “Allora le mando subito a casa, perché loro ne hanno bisogno”. “Bravo! E come le manderai?”. “Per Posta… o…”. “Beh, posso mandarteli io, tu mi darai l’indirizzo e siamo a posto. Arrivederci e vienimi a trovare qualche volta…”.
Alcuni giorni dopo in una lettera, da casa, la mia mamma scriveva: “Riccardo, l’ingegner Camillo mi ha mandato 1000 lire a tuo nome. Hai ricevuto un premio?”
Sicuro, il premio più sorprendente ed immeritato di questi trent’anni Olivetti.