La foto di Papa Francesco nella piccola cappella privata all’ospedale Gemelli dove è ricoverato da oltre un mese, è diventata l’oggetto principale di ogni mia conversazione universitaria, e perfino le lezioni sono diventate monotematiche. Si tratta della prima e unica foto del Papa pubblicata da quando è in ospedale. L’abbiamo sezionata su ogni lato: fotografico, informativo, comunicativo, semantico, viscerale. Tutto. E, come spesso accade, sia studenti che professori, ci siamo divisi: chi la ritiene necessaria, chi inopportuna, chi potente, chi fuorviante. Una foto che accende discussioni e che certo non ne placa, come forse era intenzione di chi l’ha pensata.
Non mi soffermo sui dettagli già tanto sviscerati dai giornalisti: il bicchiere dell’acqua con la cannuccia, la mano gonfia, la stola al contrario, l’assenza del calice da Messa… Né voglio lanciarmi in un dibattito sull’opportunità di pubblicare tale immagine, sul principio americano del “feed the beast” mediatico, sul mistero catalizzatore della malattia o sul governo dal letto di ospedale. Voglio puntare i riflettori su un’altra verità, forse la più lampante: le immagini contano. Sempre.
Questa foto ce lo ha ricordato con forza. Viviamo in un mondo in cui un’immagine non è mai “solo” un’immagine. È narrazione, è potere, è strategia, è emozione. È quel “quid” in più che tante volte determina l’efficacia di un processo comunicativo, e come tale non possiamo affidarlo né al caso né all’improvvisazione in buona fede. E questo vale per tutto, anche per la nostra realtà quotidiana, per la comunicazione parrocchiale e diocesana. Pensare di trasmettere qualcosa senza immagini è ormai impensabile. Senza foto, senza video, senza grafiche, un messaggio si dimezza, perde impatto, è monco. Ma attenzione: non basta un’immagine qualsiasi, della serie riempiamo il buco perché dobbiamo… Servono immagini pensate, pesate, calibrate. Perché ogni dettaglio è un’informazione, ogni elemento comunica.
Mi ronza in testa da alcuni giorni una canzone del jazzista Sergio Cammariere. Una strofa dice: “Ogni dettaglio significante può divenire significato“. Una frase che oggi suona come un monito per chi comunica, per chi si trova a dover scegliere cosa mostrare e cosa no. Perché nel gioco delle immagini non si gioca mai solo con le immagini. Si gioca con le percezioni, con le emozioni, con la memoria collettiva. Si gioca con la realtà stessa.