(Michele Curnis)
In occasione del VI centenario della morte di Dante, nel 1921, la città di Ivrea realizzò una serie di attività celebrative davvero straordinaria. Come si è già visto, l’editore eporediese Viassone assunse l’incarico di stampare in due volumi il canzoniere di Giovanni Bossetti, per le cure critiche di Bernardo Chiara. Ma l’iniziativa di più alta ambizione si dovette al Municipio, nel cui Salone si svolse un ciclo di conferenze di argomento dantesco tra il 16 Gennaio e l’8 Maggio. Ognuna di quelle conferenze fu quindi stampata dallo stesso editore Viassone in eleganti libretti in 8º grande, che circolarono come capitoli della serie “Letture del Centenario”.
Nel 1923, da ultimo, si realizzò un assemblaggio di quasi tutti gli interventi già pubblicati e di altri precedenti rimasti inediti in un unico volume, dal titolo Letture del Centenario. Onoranze a Dante Alighieri in Ivrea MCMXXI.
Questo volume – i cui esemplari costituiscono oggi una prelibata ricercatezza per i bibliofili e i dantofili – aggiunse nell’antifrontespizio la riproduzione di un ritratto di Dante della collezione Fratelli Alinari di Firenze, ispirato a un originale raffaellesco. Nella pagina successiva a quella del frontespizio, poi, fu fatta campeggiare un’epigrafe, con la dedica dell’intera rassegna: «Nella Italica commemorazione | di | Dante Alighieri | Ivrea | fedele alla memoria – grata alle opere | dedica le letture onorarie | celebranti il XIV Settembre MCCCXXI | a | Costantino Nigra | Cana-vesano | delle fortune e delle lettere patrie | benemerente». Nigra era morto nel 1907 e non poteva certo essere ricordato come un illustre studioso di Dante o come un poeta che si fosse direttamente ispirato all’opera del fiorentino.
Le ragioni della dedica del libro, pertanto, furono interamente politiche: nel 1921 la Città di Ivrea intendeva celebrare Dante soprattutto quale antesignano del Risorgimento e precursore dell’ideale unitario (di quell’Unità del 1861, per cui tanto si era impegnato il canavesano Nigra). Anziché procedere un po’ ingenuamente (come aveva fatto Bossetti, trasformando il Conte di Cavour in un compagno di viaggio spirituale di Dante), il Municipio di Ivrea preferì dedicare le celebrazioni dantesche all’antico segretario di Cavour e suo uomo più fidato nei difficili anni nella negoziazione con la Francia e i preparativi della guerra contro l’Austria: insomma, una dedica allusiva, centrata su un personaggio del territorio, di forte impatto emozionale.
Dietro un progetto così finemente preparato dovette probabilmente muovere i fili principali un altro protagonista canavesano del Risorgimento, come Emilio Pinchia (1842-1934), Conte di Banchette, già segretario del generale Raffaele Cadorna nel 1870 (nei mesi della spedizione e presa di Roma), deputato del Regno d’Italia tra il 1890 e il 1913, che aveva raggiunto il gradino più alto della carriera politica come Sottosegretario alla Istruzione Pubblica nel 1898 (governo De Rudinì), e poi di nuovo tra 1903 e 1905 (secondo governo Giolitti).
Pinchia fu avvocato, storico, scrittore fecondissimo di memorie e di libelli letterari. Nella silloge delle onoranze eporediesi i primi sette capitoli sono suoi, e i titoli illustrano un programma di educazione letteraria nazionale, tutta sotto il segno dantesco: I. Visioni italiche – Figura e tempi di Dante; II. L’Inferno; III. Il Purgatorio; IV. Il Paradiso terrestre – La figura di Beatrice; V. Il Paradiso; VI. Dante e Virgilio; VII. Dante e Manzoni – Epilogo. L’elaborazione delle conferenze di Pinchia non risale però al 1921, ma ad anni anteriori; la prima, per esempio, fu pronunciata nel Teatro Civico di Ivrea (che poi sarebbe diventato il Teatro Giacosa) il 15 Aprile 1909, in occasione dell’inaugurazione del comitato eporediese della Società Dante Alighieri.
Ma l’afflato che permea tutti i testi si può facilmente individuare in un solo tema: la predestinazione divina dell’Italia a riunirsi politicamente in un regno. Pinchia rilegge la storia medievale italiana, e ancor più quella letteraria, sulla base di questa idea, veicolando ovviamente il suo pensiero con l’ausilio di un armamentario retorico che a quell’epoca risultava assai efficace (mentre, un secolo dopo, rende la lettura abbastanza farraginosa). Anche l’accostamento dell’ultima conferenza (su Dante e Manzoni), più che per ragioni storico-letterarie, si spiega con l’obbiettivo “unitario”: il grande successo della proposta manzoniana di una lingua nazionale deve essere considerato conseguenza di un progetto linguistico “italiano” che l’autore della Commedia e del De vulgari eloquentia aveva iniziato oltre cinquecento anni prima.
La seconda metà del volume celebrativo, nella varietà tematica dovuta alla pluralità degli autori, rispecchia una più tipica raccolta di studi danteschi. Ecco i titoli delle conferenze che si tennero nel Salone Municipale di Ivrea nei primi mesi del 1921: VIII. Federico Ravello, Il sentimento della vendetta in Dante; IX. Dionisio Borra, Dante poeta di popolo; X. Giacomo Boggio, L’origine dell’anima umana nel XXV canto del Purgatorio; XI. Gaudenzio Manfredi, Modernità di pensiero politico in Dante; XII. Alessandro Favero, Di alcune interferenze platoniche nella Scolastica di Dante; XIII. Dionisio Borra, Nella Rosa dei Beati.
Se i saggi di Pinchia erano accomunati dalla prospettiva politico-nazionale con cui l’opera di Dante veniva riletta (prima e dopo l’esperienza della Prima Guerra Mon-diale), quelli della seconda parte sono accomunati da un’appartenenza che riguarda tutti gli autori, in quanto professori presso il Regio Liceo-Ginnasio “Carlo Botta”.
Anche il giovane sacerdote Dionisio Borra (1886-1972), nativo di Albiano d’Ivrea e futuro vescovo di Fossano (dal 1943 fino al 1963), era all’epoca professore di lettere presso l’istituto eporediese. Il primo dei due interventi che pronunciò a Ivrea nel 1921 è di una splendida freschezza, perché si avvia con un ricordo personale di tre anni prima, quando nel Maggio del 1918, prestando il servizio militare a Torino, Borra si era ritrovato in tram, diretto verso la caserma. «Tornavo adunque con l’anima ancora sospesa nelle serene visioni della pace della natura, tenendo tra le mani il “Dante minuscolo hoepliano”, dal quale avevo sorseggiato con avidità le bellezze ineffabili degli ultimi canti del Paradiso. E tornavo perchè sarebbe sonata tra poco la Ritirata. Quanta prosa! […] Il mio vicino di sinistra (ricordo come fosse ora), che parlava ad alta voce con un suo compagno […] si china verso l’amico e gli dice un po’ più sottovoce: “Costui”, ed accennò, con un volger di pollice discreto, a me che gli ero accosto, “costui è un prete”. Io non mi mossi: ma immagino la faccia dubitosa ed interrogativa di chi veniva messo a parte di una simile scoperta. E l’altro, di rincalzo, immediatamente: “Non c’è dubbio; legge un libro che parla del paradiso”».
L’unico autore del volume delle Onoranze eporediesi che si possa definire un dantista a tutto campo, oltre che un probo italianista, è però quel Federico Ravello, cui spetta il merito di aver redatto un articolo su Dante e il Canavese (pubblicato nel «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino» del 1921). Anche Ravello insegnava al Liceo “Botta” in quegli anni; nel 1924 si sarebbe trasferito al Regio Liceo-Ginnasio “Vitto-rio Emanuele principe di Napoli” di Aosta, dove la sua fama di studioso di Dante lo aveva evidentemente preceduto, visto che nell’Annuario per l’Anno Scolastico 1924-1925 di quell’istituto avrebbe pubblicato un’altra breve ricerca: La leggenda del “Ghibellin fuggiasco” (Tipografia Editrice Marguerettaz, Aosta 1925). Il tema cui Ravello si dedica nel volume eporediese è il sentimento della vendetta, quella personale del Dante-poeta, espressa per mezzo di tante apostrofi, condanne e maledizioni che costellano la Commedia, e che a detta dello studioso non sono espedienti retorici, bensì una forma di umana rivalsa contro l’ingiustizia.
L’acume dell’analisi di Ravello fu notato dai recensori delle numerose riviste specializzate del tempo, che nel menzionare il volume di Ivrea non dimenticavano mai di sottolineare la qualità speciale della sua conferenza sopra le altre. Non è un caso se un ulteriore intervento celebrativo pronunciato a Ivrea il 5 Giugno 1921, La grande voce, fosse affidato ancora a Ravello. Stampato anch’esso da Viassone in forma di libretto, non fu incluso nel volume miscellaneo del 1923, ma sopravvive comunque come altra preziosa briciola di divulgazione e passione dantesca.