Gherardo Colombo, ex-magistrato notissimo principalmente per la sua partecipazione al pool di “Mani Pulite”, ha incontrato nel pomeriggio di martedì 12 luglio una ventina di detenuti della casa circondariale di Ivrea (foto di Francesco Curzio).

All’incontro erano presenti altri (pochi) convenuti esterni, per lo più “del mestiere” e conoscitori dell’ambiente carcerario: qualche volontario, operatore, il garante regionale e locale, ma anche il capitano dei Carabinieri della Compagnia di Ivrea Manuel Grasso, il sindaco Stefano Sertoli e l’assessora comunale alle politiche sociali Giorgia Povolo.

L’incontro era stato organizzato dal giornale del carcere “La Fenice” per approfondire le tesi sostenute da Colombo nel suo libro “Il perdono responsabile.

Perché il carcere non serve a nulla” e favorire un confronto – che c’è stato – sul concetto di pena: in particolare tra quella definita “retributiva” (chi sbaglia paga e la punizione è la migliore risposta al reato commesso) e quella “riparativa” (chi sbaglia paga, ma in condizioni che ne favoriscano il recupero e in un processo partecipativo in cui vittime, trasgressori e comunità si uniscono per risolvere collettivamente la situazione post reato).

Gherardo Colombo ha preso subito in mano le redini dello scambio con i detenuti e più volte ha ripetuto la parola “percorso”, che è stata il vero filo conduttore del suo ragionamento, della sua critica al sistema carcerario attuale nonché del recupero di chi ha commesso reato.

Una logica, quella del percorso, che non è facilmente digeribile per chi, in carcere, fatica a capire quale percorso può esserci nel nulla della quotidianità che si vive dietro le sbarre.

È difficile recuperare punendo, è più facile attraverso un percorso – ha detto Colombo –. Tuttavia un approccio retributivo della pena paga di più a livello elettorale”.

Da qui la grande difficoltà a far cambiare le cose di fronte ad un codice penale dell’epoca fascista, del 1930, che ha subìto certamente qualche modifica ma – sempre secondo Colombo – continua a poggiare su un impianto generale per il quale “il male va ricompensato con il male”.

Delicatissimo il tema della libertà, sotteso alla domanda “fino a che punto siamo liberi di fare quel che facciamo?”, con una discussione corroborata da più di una testimonianza di detenuti sulle opportunità incontrate, sui contesti di crescita, di scuola ed educazione che hanno condotto a delle scelte diverse e divergenti, nella legalità o nella illegalità.

Unanime l’accordo sulla considerazione che chi non ha potuto fare esperienza di risolvere un conflitto senza violenza, risolverà qualsiasi futuro conflitto sempre e soltanto con la violenza, perché quello è il limite che conosce, che ha visto, vissuto e sperimentato.

Numerose sono state le frasi “forti” pronunciate da Gherardo Colombo, come quando dice che “il carcere così com’è andrebbe abolito” e che “la restrizione va adottata solo quando le persone sono pericolose per il rispetto dei diritti altrui e confliggono con la sicurezza altrui”.

Racconta Gherardo Colombo – che di persone in carcere ne ha mandate più di una ed ora nel carcere di San Vittore è diventato volontario e nel tour dove incontra migliaia di studenti propone un’idea diversa di detenzione, di recupero, di reinserimento – che nell’affrontare questi argomenti incorriamo in due errori concettuali e pregiudiziali, uno fuori e uno dentro al carcere.

Quello fuori è di pensare che non ci sia nulla di buono in quelli che stanno dentro (invece ci sono delle risorse, come dappertutto); l’errore di chi è dentro è pensare di non dover aspettarsi nulla di buono che venga da fuori.

Queste due realtà bisogna farle incontrare”, sostiene Gherardo Colombo, che è anche presidente della Cassa Ammende, che ancor più lo mette in relazione col carcere con la possibilità di sostenere progetti di reinserimento di detenuti, assistenza, recupero, integrazione.

Per intraprendere percorsi nuovi ci vuole tempo, ma bisogna mettersi all’opera – suggerisce l’ex-magistrato ai presenti -, anche se magari non basta una vita per vederne la fine”.

D’altra parte nessun percorso è immediato, ma per riuscirci è necessario concentrarsi sugli aspetti positivi di ciascuno, e fare di più; “perché si può fare di più”, ha tenuto a sottolineare il sindaco Stefano Sertoli, ricordando che il progetto di reinserimento ad Ivrea c’è, è attivo, con una persona che opera alla Biblioteca civica e presto ci sarà un altro bando (perché “abbiamo bisogno di manodopera”, chiude Sertoli).

Nel tardo pomeriggio, poi, Gherardo Colombo ha incontrato il pubblico allo Zac di Ivrea (foto sotto di Raffaele Orso Giacone). Carlo Maria Zorzi

Gherardo Colombo, classe 1946, oltre ad altri incarichi dal 1989 al 2005 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Milano, conducendo e collaborando a celebri inchieste sulla Loggia P2, l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri IRI, e poi Tangentopoli, i processi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Sme.

Dal marzo 2005 ha svolto le funzioni di giudice presso la Corte di Cassazione.

Ha lasciato le sue funzioni quattordici anni prima il pensionamento per dedicarsi ad attività di volontariato e di educazione nelle scuole per la diffusione dei concetti di legalità e giustizia, diventando anche saggista e scrittore e presidente della casa editrice Garzanti Libri.

Per tre anni, dal 2012 al 2015 è stato anche membro del consiglio di amministrazione della RAI.

Nel suo libro “Il perdono responsabile – Perché il carcere non serve a nulla” in vendita dal febbraio 2020, scrive che “dati analitici non sono facilmente estraibili per quel che riguarda il presente”.

Il carcere italiano costerebbe oltre 2miliardi e 900milioni di euro. “All’accoglienza, al trattamento penitenziario e alle politiche di reinserimento dei detenuti sono assegnati 301milioni176mila219 euro che, divisi per i 61mila174 detenuti presenti nelle carceri al 30 novembre 2019 fanno circa 13 euro e mezzo al giorno per detenuto”.

Oltre alle cifre serve capire la testimonianza di Gherardo Colombo nelle righe del suo libro: “Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto, ad esempio, proporre che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi difetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?”. Aggiungiamo; la condizione carceraria oggi incoraggia il desiderio di riabilitarsi? I dati della recidiva dicono ampiamente “no”.